Facebook ha distaccato di molto ogni altra novità e moda
passeggera legata a Internet, e ha battuto tutti i record di
crescita del numero degli utenti regolari. Altrettanto
dicasi per il suo valore commerciale, che secondo Le Monde
del 24 febbraio scorso ha ormai raggiunto la cifra inaudita
di 50 miliardi di dollari. Mentre scrivo, il numero degli
"utenti attivi" di Facebook ha doppiato la boa del mezzo
miliardo: alcuni di essi, naturalmente, sono più attivi di
altri, ma ogni giorno va su Facebook almeno la metà di tutti
i suoi utenti attivi. La proprietà informa che l'utente
medio di Facebook ha 130 amici (amici su Facebook), e gli
utenti vi trascorrono complessivamente più di 700 miliardi
di minuti al mese. Se questa cifra astronomica è troppo
grande da digerire e assimilare, sarà bene far notare che,
se divisa in parti uguali fra tutti gli utenti attivi di
Facebook, corrisponderebbe a circa 48 minuti al giorno per
ciascuno. In alternativa, potrebbe corrispondere a un totale
di 16 milioni di persone che trascorrono su Facebook 7
giorni a settimana, 24 ore al giorno.
Si tratta di un successo davvero sbalorditivo secondo ogni
parametro. Quando ha ideato Facebook (ma c'è chi dice abbia
rubato l'idea), e l'ha poi lanciato su Internet nel febbraio
del 2004 ad uso esclusivo degli studenti di Harvard,
l'allora ventenne Mark Zuckerberg dev'essersi imbattuto in
una specie di miniera d'oro: questo è piuttosto evidente.
Ma che cosa era quel minerale simile all'oro che il
fortunato Mark ha scoperto e continua a estrarre con
profitti favolosi che non cessano di accrescersi? (...)
Ciò che si è acquistato è una rete, non una "comunità". E le
due cose, come si scoprirà prima o poi (a condizione,
naturalmente, di non dimenticare, o non mancare di imparare,
che cosa sia la "comunità", occupati come si è a crearsi
reti per poi disfarle), si rassomigliano quanto il gesso e
il formaggio. Appartenere a una comunità costituisce una
condizione molto più sicura e affidabile, benché
indubbiamente più limitante e più vincolante, che avere una
rete. La comunità è qualcosa che ci osserva da presso e ci
lascia poco margine di manovra: può metterci al bando e
mandarci in esilio, ma non ammette dimissioni volontarie.
Invece la rete può essere poco o per nulla interessata alla
nostra ottemperanza alle sue norme (sempre che una rete
abbia norme alle quali ottemperare, il che assai spesso non
è), e quindi ci lascia molto più agio e soprattutto non ci
penalizza se ne usciamo. Però sulla comunità si può contare
come su un amico vero, quello che "si riconosce nel momento
del bisogno".
(...) Ebbene: quei nomi e quelle foto che gli utenti di
Facebook chiamano "amici" ci sono vicini o lontani?
Ultimamente, un entusiasta "utente attivo" di Facebook si
vantava di riuscire a farsi 500 nuovi amici al giorno, più
di quanti ne abbia acquistati io nei miei 85 anni di vita.
Ma come osserva Robin Dunbar, che insegna antropologia
evoluzionistica a Oxford, "la nostra mente non è stata
predisposta (dall'evoluzione) a consentirci di avere, nel
nostro mondo sociale, più di un numero assai limitato di
persone". Questo numero Dunbar l'ha addirittura calcolato,
scoprendo che "un essere umano non riesce a tenere in piedi
più di circa 150 rapporti significativi". (...)
Le "reti di amicizie" supportate elettronicamente
promettevano di spezzare le recalcitranti limitazioni alla
socievolezza fissate dal nostro patrimonio genetico. Ebbene,
dice Dunbar, non le hanno spezzate e non le spezzeranno: la
promessa può soltanto essere disattesa. «È vero», ha scritto
lo studioso lo scorso 25 dicembre nella sua rubrica sul New
York Times, «con la propria pagina di Facebook si può fare
amicizia con 500, 1000, persino 5000 persone. Ma tutte,
eccetto quel nucleo di 150, non sono che semplici voyeur che
mettono il naso nella tua vita quotidiana». Tra quei mille
amici su Facebook, i "rapporti significativi" – mantenuti
per mezzo di un servizio elettronico oppure vissuti off-line
– sono calmierati, come prima, dai limiti invalicabili del
"numero di Dunbar". Il vero servizio reso da Facebook e da
altri siti "sociali" simili è dunque il mantenimento del
nucleo di amici nelle condizioni del mondo attuale, un mondo
ad elevata mobilità, che si muove in fretta e cambia
rapidamente... (...)
Dunbar ha ragione quando sostiene che i succedanei
elettronici del rapporto faccia a faccia hanno aggiornato il
retaggio dell'età della pietra, cioè hanno adattato i modi e
i mezzi dei rapporti umani ai requisiti della nostra nouvel
âge. Mi sembra però che trascuri un fatto, e cioè che nel
corso di tale adattamento, quei modi e quei mezzi sono stati
anche modificati in notevole misura, e di conseguenza anche
i "rapporti significativi" hanno cambiato significato.
Altrettanto deve aver fatto il contenuto del concetto di
"numero di Dunbar". A meno che tale contenuto non si
esaurisca precisamente e unicamente nel numero. Il punto è
che, indipendentemente dal fatto che il numero di persone
con cui si può stabilire un "rapporto significativo" non sia
variato nel corso dei millenni, il contenuto richiesto per
rendere "significativi" i rapporti umani dev'essere cambiato
in notevole misura, e in modo particolarmente drastico in
questi ultimi trenta-quarant'anni… Esso si è modificato al
punto che, come ipotizza lo psichiatra e psicoanalista Serge
Tisseron, i rapporti considerati "significativi" sono
passati dall'intimité all'extimité, cioè dall'intimità a ciò
che egli chiama "estimità". (...)
L'avvento della società-confessionale ha segnato il trionfo
definitivo di quella invenzione squisitamente moderna che è
la privacy – ma ha anche segnato l'inizio delle sue
vertiginose cadute dalla vetta della sua gloria. Trionfo che
si è rivelato una vittoria di Pirro, naturalmente, visto che
la privacy ha invaso, conquistato e colonizzato la sfera
pubblica, ma al prezzo di perdere il suo diritto alla
segretezza, suo tratto distintivo e privilegio più caro e
più gelosamente difeso.
Analogamente ad altre categorie di beni personali, infatti,
la segretezza è per definizione quella parte di conoscenza
la cui condivisione con altri è rifiutata o proibita e/o
strettamente controllata. La segretezza, per così dire,
traccia e contrassegna i confini della privacy, essendo
quest'ultima la sfera destinata ad essere propria, il
territorio della propria sovranità indivisa, entro il quale
si ha il potere totale e indivisibile di decidere "che cosa
sono e chi sono", e a partire dalla quale si possono
lanciare e rilanciare le campagne per far riconoscere e
rispettare le proprie decisioni e mantenerle tali.
In una sorprendente inversione a U rispetto alle abitudini
dei nostri antenati, però, abbiamo perso il fegato,
l'energia e soprattutto la volontà di persistere nella
difesa di quei diritti, di quegli insostituibili elementi
costitutivi dell'autonomia individuale. Quel che ci spaventa
al giorno d'oggi non è tanto la possibilità del tradimento o
della violazione della privacy, quanto il suo opposto, cioè
la prospettiva che tutte le vie d'uscita possano venire
bloccate. L'area della privacy si trasforma così in un luogo
di carcerazione, e il proprietario dello spazio privato è
condannato a cuocere nel suo brodo, costretto in una
condizione contrassegnata dall'assenza di avidi ascoltatori
bramosi di estrarre e strappare i nostri segreti dai
bastioni della privacy, di gettarli in pasto al pubblico, di
farne una proprietà condivisa da tutti e che tutti
desiderano condividere. A quanto sembra non proviamo più
gioia ad avere segreti, a meno che non si tratti di quel
genere di segreti in grado di esaltare il nostro ego
attirando l'attenzione dei ricercatori e degli autori dei
talk-show televisivi, delle prime pagine dei tabloid e delle
copertine delle riviste su carta patinata. (...).
In Gran Bretagna, paese arretrato di cyber-anni rispetto
all'Estremo Oriente in termini di diffusione e utilizzo di
apparecchiature elettroniche di avanguardia, gli utenti
forse si affidano ancora al social networking per
manifestare la loro libertà di scelta e addirittura lo
ritengono uno strumento di ribellione e auto-affermazione
giovanile. Ma in Corea del Sud, per esempio, dove la maggior
parte della vita sociale è già abitualmente mediata da
apparecchiature elettroniche (o, piuttosto, dove la vita
sociale è già stata trasformata in vita elettronica o
cyber-vita, e dove la "vita sociale" per buona parte si
trascorre principalmente in compagnia di un computer, di un
iPod o di un cellulare e solo secondariamente in compagnia
di altri esseri in carne e ossa), ai giovani è del tutto
evidente che non hanno neanche un briciolo di scelta: là
dove vivono, vivere la vita sociale per via elettronica non
è più una scelta ma una necessità, un "prendere o lasciare".
La "morte sociale" attende quei pochi che ancora non si sono
collegati a Cyworld, leader del mercato sudcoreano in fatto
di cultura show-and-tell. (...)
I teenager equipaggiati di confessionali elettronici
portatili non sono che apprendisti in formazione e formati
all'arte di vivere in una società-confessionale, una società
notoria per aver cancellato il confine che un tempo separava
pubblico e privato, per aver fatto dell'esposizione pubblica
del privato una virtù pubblica e un dovere, e per aver
spazzato via dalla comunicazione pubblica qualsiasi cosa
resista a lasciarsi ridurre a confidenze private, insieme a
coloro che si rifiutano di farle. (...) Essere membri della
società dei consumatori è un arduo compito, un percorso in
salita che non finisce mai. Il timore di non riuscire a
conformarsi è stato soppiantato dal timore
dell'inadeguatezza, ma non per questo si è fatto meno
tormentoso. I mercati dei consumatori sono bramosi di
capitalizzare questo timore, e le industrie che sfornano
beni di consumo si contendono lo status di guide/aiutanti
più affidabili per i loro clienti, sottoposti allo sforzo
incessante di essere all'altezza del compito.
Sono i mercati a fornire gli "attrezzi", cioè gli strumenti
indispensabili per "auto-fabbricarsi": un lavoro che
ciascuno esegue da sé. E in realtà, le merci che i mercati
rappresentano come "attrezzi" destinati a essere usati dai
singoli per prendere decisioni non sono che decisioni già
prese. Quelle merci sono state approntate ben prima che il
singolo si trovasse dinanzi al dovere (rappresentato come
opportunità) di decidere. È quindi assurdo pensare che
quegli strumenti rendano possibile una scelta individuale
delle finalità. Al contrario, essi non sono che
cristallizzazioni di un'irresistibile "necessità" che gli
esseri umani, oggi come un tempo, sono tenuti a imparare,
cui devono obbedire, e cui devono imparare a obbedire per
essere liberi…
Ma allora, lo strabiliante successo di Facebook non sarà
dovuto al fatto di aver creato il mercato su cui, ogni
giorno, necessità e libertà di scelta s'incontrano?
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