25 dicembre 2012 giorno del Santo Natale

  • Lettera di Natale dI Don Tonino Bello

    «Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi "Buon Natale" senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocenti, formali, imposti dalla "routine" del calendario». È l’"incipit" di un’"irrituale" lettera natalizia dell’indimenticato vescovo Antonio Bello, che prosegue: «Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli! Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio». E avanti così, chiamando a raccolta Maria e Giuseppe, gli angeli, i pastori, i poveri, come a disegnare un presepe che nulla ha di consolatorio o intimistico per additare invece la fonte della gioia vera e della speranza che non muore, accolte dal credente nelle incandescenze della storia.
    In quella lettera d’auguri – chi volesse leggerla per intero la trova nel sito internet" di
    "Pax Christi" – c’è tutto «don» Tonino, il suo modo d’essere cristiano e cittadino, fratello e padre. Evangelicamente provocatorio. Con le parole ma prima di tutto con la vita. Ed è un bel regalo di Natale che l’annuncio dell’avvio della causa di beatificazione sia stato dato dal suo successore a Molfetta, il vescovo Luigi Martella, a pochi giorni dal Natale e nell’anno del 50° di sacerdozio e del 25° di episcopato.
    Antonio Bello, nato ad Alessano (Lecce) il 18 marzo 1935, è stato infatti ordinato prete l’8 dicembre 1957 e dopo vari incarichi nella natìa diocesi di Ugento – tra Seminario, parrocchia e "Azione cattolica" – nel 1982 viene nominato vescovo di Molfetta-Giovinazzo-Terlizzi e, poco dopo, di Ruvo. Iniziano così undici anni di dedizione totale alla diocesi affidata alle sue cure, mentre nel 1985 viene nominato presidente nazionale di "Pax Christi", divenendo presto "leader" carismatico del movimento pacifista italiano. L’Eucaristia è il cuore del suo ministero di vescovo e della sua vita di prete, operoso e contemplativo insieme. Carità pastorale, amore per la liturgia, riferimento costante alla Bibbia, accoglienza e promozione dei poveri e degli emarginati. E tanta preghiera. La sua Chiesa va «sul passo degli ultimi» per abbracciare tutti.
    Da presidente di "Pax Christi" si fa costruttore di pace con uno sguardo che dall’Italia si allarga al mondo: «vigilanza» verso l’industria bellica e il commercio internazionale delle armi, educazione alla "convivialità delle differenze", opposizione alla guerra – come quella del "Golfo", nel 1991. Parole, opere. Gesti. Come, nel ’92, la marcia della pace in una Sarajevo cinta d’assedio e dilaniata dall’odio etnico. La malattia che pochi mesi dopo – il 20 aprile 1993 – lo porterà a una morte prematura, preceduta da un calvario di sofferenze, non gli impedisce di attraversare la Bosnia infiammata dalla guerra e di sfidare l’indifferenza dei potenti di fronte all’ennesima strage degli innocenti, per farsi prossimo a questi ultimi. Per essere con loro, tra loro. Per "intercedere".
    Da autentico «servo di Dio», come ora possiamo invocarlo.

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