PENSIERI DEL MIO AMICO VITTORIO

- Da “CONFCOMMERCIO MAGAZINE, N. 2, 2011, PAG. 38
LA GOLA TRA COMUNICAZIONE, VIZI E CURIOSITÀ

di Vittorio Polito.

La gola, termine generico con cui si designa soprattutto la faringe e la parte alta del tratto laringo-tracheale, rappresenta una parte anatomica vitale del collo, in quanto racchiude la laringe che è l’organo della respirazione, della fonazione, del linguaggio e quindi della comunicazione. La gola, opportunamente protetta da idonea muscolatura, è stata definita nodo ferroviario, attraverso il quale passano le connessioni vitali tra organi ed apparati, come la bocca, il naso, la laringe, la faringe, i polmoni e lo stomaco. Inoltre, attraverso questo tunnel, passa il grande binario della circolazione sanguigna che collega due organi anatomici eccellenti: cuore e cervello. La gola, oltre a racchiudere le importanti funzioni già dette, è anche la porta di accesso di tutte le squisitezze della vita alimentare ed è sinonimo di ghiottoneria, ingordigia, golosità e come tale considerata dalla morale cattolica uno dei sette peccati capitali. La differenza della gola tra i due sessi è ben visibile: nell’uomo è ben evidente, nella donna meno, quella sporgenza anatomica chiamata “pomo d’Adamo”, che mentre ci ricorda il peccato originale, altro non è che la punta (osso ioide) di una cassa di risonanza (laringe) per le corde vocali. Il fatto poi che nell’uomo è più grande, non è dovuto solo ad una struttura più robusta, ma anche alla maggiore lunghezza delle corde vocali (18 mm. nell’uomo, 13 nella donna), espressione di un diverso timbro vocale.
Il collo femminile? È generalmente più lungo e sottile di quello maschile, simboleggia un’immagine di bellezza e femminilità, riconosciuto soprattutto nel mondo della moda. In Birmania, invece, vivono donne-giraffa, che hanno un collo più lungo di 2 o 3 volte il nostro, a causa di una serie di anelli o meglio di spire metalliche che vengono messe alle bambine intorno ai 5-6 anni e in seguito ne vengono aggiunte altre. In questo modo il collo può superare anche i 30 centimetri di lunghezza, subendo così una graduale deformazione di tutta la struttura ossea delle spalle e delle clavicole, al punto che se gli anelli dovessero essere rimossi le donne non riuscirebbero più a tenere su la testa a causa dell’atrofia dei muscoli del collo. Gli anelli pare fossero utilizzati per proteggersi dai morsi delle tigri, ma attualmente la legge vieta questa usanza tribale.
Vito Lozito, docente universitario di Storia della Chiesa dell’Università di Bari, scomparso qualche anno fa, nella sua pubblicazione “Alla radice del Vizio” (Levante Editori), fa un’ampia disamina dei vizi capitali, ricordandoci, ad esempio, attraverso una massima che deriva dall’Eunuchus di Terenzio, che «L’atto amoroso, senza il supporto del cibo e del vino, infiacchisce». Ma, fatta salva la morale, i cibi rappresentano un settore particolarmente interessante ai quali l’essere vivente si è sempre servito per soddisfare le indispensabili esigenze di sopravvivenza. Non va dimenticato che il primo uomo (Adamo), cadde proprio per il peccato di gola. Infatti anche se il primo peccato fu, come dicono molti, un peccato di superbia, se non avesse aggiunto il peccato di gola, non sarebbe stato condannato, e con lui l’intero genere umano.
D’altro canto la Sacra Scrittura offre numerosi esempi di fatti dannosi, provocati da eccessi alimentari e da ubriachezza. Esaù, personaggio dell’Antico Testamento, figlio di Isacco e Rebecca, perdette la primogenitura per un piatto di lenticchie, mentre Noè, a causa del vino, in uno stato di ebbrezza, mostrò le sue nudità ai figli. Erode, invece, dopo aver banchettato ed in preda ai richiami della lussuria ed eccitato dalla danza di Salomè, accettò di uccidere Giovanni Battista. A proposito della supremazia del linguaggio sulle altre forme di comunicazione, ricordo uno degli episodi più inquietanti dell’Antico Testamento: quello della Torre di Babele (Genesi, XI). Fin dall’antichità gli uomini avevano una chiara consapevolezza del valore della comunicazione interumana e sapevano apprezzare il potere ed il significato sociale. La leggenda narra che, al tempo del racconto biblico, su tutta la Terra si parlava «una sola lingua con le stesse parole» e proprio grazie all’universalità del loro linguaggio gli uomini si sentirono talmente forti da costruire una torre che saliva fino al cielo, provocando l’ira di Dio, di un Dio spesso geloso, come quello dell’Antico Testamento. La condanna divina fu proprio la diversificazione delle lingue, affinché gli uomini non si potessero più capire e si disperdessero su tutta la Terra. Anche l’arte italiana ha contribuito a dare rilievo al collo attraverso i celebri dipinti La Bohèmienne e Madama Pompadour del grande Modigliani. Altri riferimenti alla gola sono rappresentati da concetti allusivi e di uso comune, come “avere il cuore in gola” (provare forte emozione), “avere l’acqua alla gola” (essere in estremo pericolo, in gravissime difficoltà o costringere qualcuno a far qualcosa o catturarlo con sfiziose ghiottonerie). Per finire, qualche curiosa ricetta popolare regionale italiana e straniera contro il mal di gola, ricordata da Luciano Sterpellone nel suo libro “Orecchi, naso… e un po’ di gola” (A. Delfino Editore): “Spalmare sulla gola un po’ di grasso di serpente” (Valle d’Aosta); “Applicare e fissare intorno al collo un impacco di cenere calda” (Liguria); “Contro l’afonia, bere un quarto di latte in cui sono stati bolliti due fichi” (Trentino); “Applicare al collo un sacchetto di sabbia calda” (Lazio); “Frizionare la gola con olio caldo” (Campania) e, per la Puglia, “Fare sciacqui e/o gargarismi con decotto di radice d’adonide - erba rizomatosa - in mezzo bicchiere di acqua tiepida”. E all’estero che succede? Per la Nuova Zelanda, “Avvolgere intorno al collo un panno bagnato e ricoprirlo con un calzino di lana da uomo”; per la Svizzera tedesca “Fare gargarismi con infuso d’aglio e salvia in parti uguali” e, infine, per la Turchia, “Scarificare la cute del collo a livello della gola, e spargervi fiori di camomilla. Avvolgere intorno alla gola della mussola sulla quale sono stati schiacciati grani di pepe nero e noccioli d’oliva”.

Insomma paese che vai, usanza che trovi!

E’ PIU’ INTELLIGENTE L’UOMO O LA DONNA ?

di Vittorio Polito

Secondo il vocabolario Treccani, intelligente è il soggetto dotato di intelletto e d’intelligenza, che ha facoltà e capacità di intendere, ovvero persona che ha intelligenza pronta e vivace, che capisce e apprende con facilità, che vede e giudica le cose con chiarezza. Secondo Alfred Binet, psicologo francese, l’intelligenza è «la facoltà di giudicare, altrimenti detta buon senso, senso pratico, iniziativa, capacità di adattarsi alle circostanze. Giudicar bene, comprendere bene, ragionar bene». Per lo psicologo Lorenzo Magri «L’intelligenza umana, non si caratterizza come un fattore coerente e delineato, piuttosto essa si manifesta ed esprime attraverso un insieme numeroso di abilità, comportamenti, pensieri ed emozioni. La storia ha contato molti tentativi di definire il concetto di intelligenza in modo univoco, standard; tuttavia essi non hanno avuto successo. Il motivo del loro insuccesso risiede principalmente nel fatto che l’intelligenza non è qualcosa che si possiede o non si possiede, bensì un mosaico di elementi che trovano espressione in tutti i nostri comportamenti e pensieri». Ma, a parte le definizioni, spesso siamo tormentati dal dilemma se sia più intelligente la donna o l’uomo? Secondo Richard Lynn, psicologo dell’Università di Belfast, non vi sono dubbi, è l’uomo, poiché – egli afferma – il peso del suo cervello è maggiore. Ma pare che il peso non c’entri proprio nulla, ciò che più conta è la complessità del cervello stesso, così asserisce lo psicanalista Dino Origlia. In realtà il cervello maschile pesa mediamente un etto in più di quello femminile ed ha il 4% di neuroni in più, mentre quello femminile ha un maggior numero di connessioni tra una cellula e l’altra. La conferma che il cervello femminile è più complesso viene anche da ricerche americane ad opera di due neurofisiologi dell’Università di Yale, Sally e Bennet Shaywitz, i quali hanno utilizzato un nuovo apparecchio, la risonanza magnetica funzionale – FMRI – in grado di registrare i segnali di lavoro cerebrale. Presso l’Università dell’Indiana, invece, è stato notato che i maschi impegnano nella conversazione un solo emisfero cerebrale, mentre le donne li utilizzano entrambi, per cui è più pronto ad ascoltare. La realtà è che l’organizzazione del cervello è diversa nei due sessi, così capita che l’uomo ha maggiori capacità di risolvere i problemi, mentre la donna ha maggiori capacità nel comprenderli. Sta di fatto che le tecniche di neuroimmagine hanno anche dimostrato che gli uomini risolvono i problemi attivando solo il lato sinistro del cervello, mentre le donne li usano tutti e due.  Qualche curiosità: le donne trasferiscono le informazioni tra i due emisferi cerebrali più velocemente, nel linguaggio usano entrambi gli emisferi, l’uomo solo il sinistro, mentre con l’avanzare dell’età il cervello maschile si restringe più rapidamente di quello femminile. Infine il risultato di una recentissima indagine di ricercatori inglesi ci fa sapere anche che un gruppo di soggetti con quoziente di intelligenza elevato hanno anche più probabilità di vivere a lungo. Essi, infatti, hanno controllato un gruppo di esami eseguiti nel 1932 riscontrando che coloro che avevano un quoziente di intelligenza più elevato – media del 100 – al 1997 erano ancora in vita.
In effetti, dare una definizione dell’intelligenza appare difficile, poiché essa si modifica nel tempo a seconda di circostanze e situazioni. Secondo Howard Gardner, psiconeurologo americano, vi sono almeno sei diversi tipi di intelligenza, classificabili in: logico-matematica, creativa, linguistica, meccanica, musicale, spaziale e corporeo-cinetica (quest’ultima utilizzata dagli atleti). Nella famiglia Bach, ad esempio, l’intelligenza musicale si sprecava, se solo si considera che si sono contati ben 18 musicisti nell’arco di quattro generazioni. In ogni caso, in natura non ha senso una specie in cui un sesso sia migliore dell’altro ma ha più senso che in una specie i due sessi siano maggiormente specializzati in qualcosa. Se realmente le donne fossero migliori degli uomini o viceversa la specie umana non sarebbe mai riuscita a superare gli ostacoli dell’evoluzione. Secondo Leonardo Tondo, psichiatra dell’Università di Harvard, «Le differenze esistono, ma le loro conseguenze dipendono dal contesto culturale sociale in cui si esprimono». Che poi intelligenti si nasce o si diventi non si è ancora capito, ma da quello che dicono gli esperti si ipotizza una predisposizione. Anche Aldo Carotenuto, psicologo della personalità, è del parere che tutti abbiamo un’intelligenza di base che va stimolata sin dalla più piccola età attraverso giochi, fiabe e contatto umano, eliminando così ogni perplessità, poco importa se maschi o femmine. Ma attenzione, secondo Mohandas Gandhi,

«L’eccesso di intelligenza è come un coltello senza manico: ferisce chi l’usa».

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Il bacio?

Il più bel fiore che nasce nel giardino dell’amore

di Vittorio Polito.

Qualcuno ha detto che «Vivere senza amore e senza baci è vivere senza felicità», mentre Trilussa sosteneva che «Il bacio è il più bel fiore che nasce nel giardino dell’amore». Ma vediamo il significato di questo atto. Il bacio è una delle manifestazioni di affetto più diffuse nel mondo. Ma che cos’è un bacio? Un atto compiuto applicando le labbra e premendole, per un tempo più o meno lungo, su persona o cosa in segno di amore, venerazione, affetto, devozione, ecc. Gli antropologi sostengono che il bacio deriverebbe dall’uso della madre di passare piccoli bocconi alla prole in fase di svezzamento, mentre come gesto erotico era conosciuto a molti popoli dell’antichità, come mongoli, eschimesi, polinesiani e persino ai giapponesi.  I latini definirono tre tipi di baci: ‘osculum’ il bacio del rispetto; ‘savium’, il bacio della libidine e degli amori e ‘basium’, quello dell’affetto. In pratica, spiegava Isidoro di Siviglia, Santo, teologo e storico spagnolo, l’osculum si dà ai figli, il basium alle mogli e il savium, quello utilizzato nei contesti erotici, alle prostitute. Erodoto, lo storico greco, racconta che già tra i persiani i baci erano un gesto istituzionalizzato, ma baciare sulla bocca era un gesto fra pari, baciare sulla guancia indicava lieve differenza sociale. Anche nella Bibbia si parla di bacio: «Quando Labano sentì che era giunto Giacobbe, gli corse incontro, l’abbracciò e lo baciò e lo condusse a casa sua», (Genesi 29.13); «Intanto il Signore disse ad Aronne: - Va’ incontro a Mosè verso il deserto – Egli andò e l’incontrò verso il monte di Dio, e lo baciò», (Esodo 4.27). La stessa Passione di Cristo inizia con il bacio del discepolo Giuda: «Colui che lo tradiva aveva dato loro questo segno: Chi bacerò, è lui: prendetelo» (Matteo 26.48). Non si tratta di una novità, infatti, nella cultura classica il bacio ebbe spesso la funzione di rappresentare l’inganno, velato dal gesto più amichevole che l’uomo potesse concepire. A questo punto sarà chiaro che il bacio a cui stiamo maliziosamente pensando, non è affatto quello più importante dell’amore, ma quello riferito alla amicizia, alla cortesia, alla fedeltà, all’ossequio.
L’episodio evangelico narrato da Matteo ci rimanda all’abitudine di salutarsi col bacio, oggi praticata più che mai. Il problema è quello di sapere quanti baci si debbano dare, e si passa dall’inflazionato baciarsi sulle guance dei francesi al più contenuto omaggio del gentiluomo che solo sfiora la mano della dama. Ma non tutti amano il saluto sotto questa forma, che se è comune nel sud dell’Europa non lo è nel nord, dove il bacio sulle guance provoca imbarazzo e arrossamento più del bacio sulle labbra. Andando verso oriente le cose cambiano e giungiamo al bacio russo, variante politica del bacio francese. Famosissima è la foto che ritrae l’unirsi delle labbra, ad occhi chiusi, di Leonid Breznev, presidente del Soviet Supremo russo, ed Erich Honecker, leader della Germania est, che suggellava un rapporto sulla cui natura gli anticomunisti di una volta non ebbero mai dubbi. Ma la malignità era fuori luogo, infatti gli uomini russi si baciano sulle labbra e non lo fanno solo a partire da Stalin, ma lo facevano già in epoca zarista. In una fotografia degli inizi del Novecento si vede lo zar Nicola II dare il bacio tradizionale di Pasqua ai semplici marinai della sua flotta, che in fila, attendono il loro turno. Ma anche sulla corazzata Potemkin ci furono i “Giuda” che non fecero partire solo baci volanti ma bordate rivoluzionarie. Il bacio però è anche una convenzione. Dicono gli etologi che è proprio l’unirsi delle labbra a distinguere l’uomo dall’animale, a fare del sesso al fine di concepire, un incontro tra due anime. Ma è anche vero che il bacio è un istinto naturale. Ricordate Tarzan, che pur non avendo vissuto da essere umano, ma da onorata scimmia, sapeva baciare, e come baciava! la sua Jane, pur non avendo avuto alcun insegnamento. Molti sono i baci fatidici come, ad esempio, quello di Paolo e Francesca, bacio tragico, il cui dolce sapore si trasformerà in atroce dolore. Il bacio più celebre rimane quello che come linfa vitale ridesta la bella addormentata nel bosco. Ma vi è anche quello del Conte Dracula che vive di baci che avventate signorine o signore gli permettono di dare. Come dire di baci straziami, ma anche di baci saziami! Ma, se manca la fantasia e non sappiamo baciare cosa succede? Ecco alcuni consigli. Il bacio delicato sulle palpebre: un modo molto romantico per comunicare che l’amore rende ciechi. Il bacio alla francese: sicuramente il bacio più intimo. La maggior parte delle persone considera questo bacio l’inizio di un rapporto. Il bacio all’eschimese: un tenero strofinare di nasi. Il bacio della farfalla: muovere le palpebre nelle zone erogene del nostro partner o della nostra partner. Ma attenzione! Oggi la situazione è un po’ diversa: se tenti di dare un bacio rischi il carcere. Infatti, la Corte di Cassazione in una sentenza di qualche anno fa, ha condannato un direttore di banca a 14 mesi di reclusione ed a risarcire 1500 euro (1200 a copertura delle spese legali). Il danno subito dalla donna fu quindi quantificato in 300 euro per aver tentato di baciare, con un “mero sfioramento delle labbra”, una sua dipendente proprio nel giorno di San Valentino del 2000.
Il bacio è anche gesto di potere e di ossequio. Basti ricordare il virile “baciamo le mani” dei siciliani, molto ben esemplificato nel film “Il padrino”. Ma vi è anche l’arte del bacio all’anello episcopale o papale che richiede una notevole esperienza, o quello religioso e di rispetto al quale ci ha abituati Giovanni Paolo II quando baciava la terra che visitava, o il bacio al Crocifisso. Santa Caterina da Siena baciava i piedi dei lebbrosi per umiltà e per infondere loro coraggio, mentre Sant’Antonio, prima di recitare le sue preghiere baciava Gesù Bambino.
Gli appassionati di cinema non avranno certamente dimenticato le scene romantiche di «Casablanca» o il bacio più lungo della storia del cinema in «Notorius» o la storia d’amore tra la bella attrice svedese Ingrid Bergman e il regista italiano Roberto Rossellini che negli anni cinquanta occupava le pagine dei rotocalchi. Il bacio alla fine è entrato anche in pasticceria: molti dolci sono definiti baci. I più noti sono quelli di cioccolato di una famosa azienda di Perugia i quali sono sempre accompagnati da messaggi d’amore. Per chi volesse saperne di più provvede un libro inglese “The kiss in history” (Il bacio nella storia, Manchester University Press), una raccolta di saggi sull’argomento a cura della sociologa Karen Harvey. Ed ora qualche detto sull’argomento: “baciare i piedi a qualcuno” = dimostrargli una devozione esagerata; “baciare per terra” = mostrarsi riconoscente; “essere baciato dalla fortuna” = essere favorito dalla sorte in modo insperato e inaspettato.
E per finire ricordo che la storia del bacio accompagna la storia stessa dell’umanità, la sua arte come la sua letteratura, la vita pubblica come quella privata. Senza dimenticare che il primo bacio non si scorda mai.

Il problema comincia quando, col passare degli anni, non ricordiamo più quando abbiamo dato l’ultimo.

Scienza:

la memoria? Un deposito di immagini e percezioni

di Vittorio Polito

Un tema di grandissimo interesse è comprendere come sviluppare la capacità di apprendimento e quali sono i meccanismi della memoria. Questa conoscenza può aiutare non solo a migliorare le nostre prestazioni professionali ma anche i rapporti umani. Cos'è la memoria? La capacità della mente di ritenere traccia di informazioni relative a eventi, immagini, sensazioni, idee, ecc., di cui si sia avuto esperienza e di rievocarle quando lo stimolo originario sia cessato (Vocabolario Treccani).  Contrariamente a quanto crede la maggior parte di noi, la memoria non invecchia, dal momento che le cellule cerebrali non hanno ricambio, come avviene invece per il resto del corpo. Se così fosse avremmo bisogno di memorizzare continuamente le nozioni. Certo si registra un certo declino con l'avanzare dell'età, ma non così grave da implicare problemi seri per la nostra vita. La maggior parte dei problemi legati alla perdita della memoria durante l'invecchiamento sono, infatti, dovuti all'inattività e quindi alla mancanza di esercizio mentale. Come gli altri organi del corpo, il cervello si atrofizza più rapidamente se non viene usato. Molti studi in letteratura medica indicano nella continua stimolazione della nostra mente la chiave per mantenere vive le cellule cerebrali. Alcuni proverbi ricordano che «il ladro deve avere buona memoria» o «le bugie hanno le gambe corte», nel senso che bisogna ricordare quel che si dice, insomma dobbiamo avere una memoria efficiente, altrimenti… La storia di Pinocchio è emblematica. Ce lo dice Collodi: «Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte e le bugie che hanno il naso lungo». Il burattino, infatti, non può mentire facilmente poiché ha il naso che si allunga quando le spara grosse.
Ma cos'è la memoria? La memoria è la capacità, comune a molti organismi, di conservare traccia più o meno completa e duratura degli stimoli esterni sperimentati e delle relative risposte. Con riferimento all'uomo, nel quale tale funzione raggiunge la più elevata organizzazione, il termine indica sia la capacità di ritenere traccia di informazioni relative a eventi, immagini, sensazioni, idee, di cui si sia avuto esperienza, e di rievocarle alla bisogna. Senza la memoria saremmo incapaci di vedere, di udire o di pensare. Non avremmo un linguaggio per esprimere la nostra situazione e, di fatto, neppure il senso della nostra identità personale. Cosa si ripone nella memoria? Secondo Sant'Agostino, «I tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi e tutto ciò che vi fu messo al riparo o in disparte o che l'oblio non ha ancora inghiottito e sepolto». Fino a poco tempo fa, la maggioranza degli scienziati riteneva che la memoria cominciasse a funzionare soltanto dopo la nascita, ma esperimenti di studiosi olandesi, condotti attraverso l'addome della mamma, sembra smentirli. Capita di ricordare bene quello che si è mangiato oggi, ma meno bene le pietanze di ieri e così via retrocedendo nel tempo, mentre ricordiamo bene i numeri di telefono di casa, dell'ufficio o di altre persone con le quali abbiamo continuamente contatto. Ma, se notiamo una sequenza di otto o dieci cifre, difficilmente riusciamo a ripeterla dopo qualche minuto, ma la dimentichiamo del tutto ancora qualche altro minuto più tardi. Eppure i numeri telefonici che ricordiamo sono ugualmente di otto-dieci cifre. Anche per l'abbigliamento è la stessa cosa, mentre non ricordiamo quello di ieri, ricordiamo benissimo come eravamo vestititi noi e gli altri nel giorno di un avvenimento importante. Questi sono solo alcuni esempi per dimostrare come è vario ed articolato il concetto di memoria. Senza i ricordi, l'esistenza non sarebbe altro che un succedersi di episodi isolati e non collegati tra loro. Amore, amicizia e tutti gli avvenimenti a noi legati vengono, invece, incamerati andando a costituire un patrimonio cerebrale fondamentale. Cerchiamo di capire come funziona la memoria, e come mantenerla efficiente nel tempo. Cominciamo a dire che bisogna distinguere quella a breve ed a lungo termine. Nel primo caso la mente immagazzina informazioni ricevute nelle ultime ore, nel secondo caso l'uomo è capace di archiviare una quantità illimitata di dati e di conservarli per tutta la vita. Cosa possiamo fare per aiutare la memoria? Qualche volta capita di essere alla ricerca degli occhiali o delle chiavi della macchina.  Prestate attenzione alle vostre azioni per risparmiarvi momenti di frustrazione e di panico. Per esempio, impiegherete solo qualche secondo per dire a voi stessi: «sto mettendo le chiavi nella tasca della giacca» o «sto posando gli occhiali sul comodino». Per ricordare, invece, liste di numeri o altre informazioni, basta suddividerle e raggrupparle. Esempio: ricordare un numero come 3013661755, può facilmente essere ricordato come 301 366 1755, mentre per ricordare quali sono i mesi dell'anno che hanno solo trenta giorni è sufficiente memorizzare la famosa filastrocca imparata da piccoli: «trenta giorni ha novembre con aprile, giugno e settembre, di ventotto ce n'è uno, tutti gli altri ne hanno trentuno». Come tutti i processi fisiologici anche la memoria può essere colpita da qualche 'insulto' patologico o da qualche incidente, per cui si potrebbe avere una diminuzione della capacità mnemonica o la completa assenza: nei casi più gravi si parla di amnesia, che può assumere aspetti di gravità differenti. Il morbo di Alzheimer o demenza senile, è una tra le forme più gravi che procura assenza di ricordi, associata a sintomi ancor più seri quali l'incapacità linguistica e la mancanza di orientamento spazio-temporale. Insomma, la memoria è indispensabile in quanto rappresenta la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire. Per quel che ci è dato di fare, alleniamola per tenerla in efficienza.

Senza di essa non siamo nulla.

IL PALAZZO DELLA PROVINCIA

di Vittorio Polito

Sull’incantevole lungomare di Bari si allineano maestosi palazzi privati e pubblici, il più bello di tutti quello della Provincia con la sua maestosa torre dell’orologio. L’edificio fu realizzato su progetto dell’ing. Luigi Baffa, nativo di Galatina (Lecce), con varianti dell’ingegnere Vincenzo Chiaia, incaricato alla successione della direzione dei lavori, in seguito alla morte di Baffa (11 novembre 1933), a causa di un incidente stradale.
L’architetto Saverio Giannatempo ha pensato bene di descriverlo accuratamente nella pubblicazione “Il Palazzo della Provincia di Bari”, edito da Mario Adda Editore, particolarmente attento a diffondere eleganti edizioni sulla nostra bella città. La torre dell’orologio, che dà maestosità al Palazzo, si fregiò della dedica «Ai Martiri della Provincia Ovunque e Comunque Caduti nell’Ultima Grande Guerra e nella Rivoluzione Fascista», mentre alla fine del 1933 si pose mano all’appalto per la fornitura dell’orologio per cui furono invitate sette ditte. I decori, la maestosità delle stanze, la splendida Torre, la Sala del Colonnato, la Sala Consiliare, la scalinata, rappresentano un prezioso esempio di architettura e testimonianza del passato. Nella Sala Consiliare non manca neanche il Palco della Musica, destinato a interventi musicali e, per tale scopo, fu allora data facoltà, alla ditta esecutrice, di decidere la conformazione più adatta alla ottimale diffusione dei suoni. Da decenni, il Palco purtroppo è inagibile, nonostante le promesse dell’ex presidente Divella, che assicurò il restauro e l’agibilità. Un volume, come scrive nella presentazione Marcello Vernola, Presidente della Provincia pro tempore, che rimarrà nella storia a testimonianza del valore estetico e funzionale di una sede istituzionale, centro della vita amministrativa dei 48 comuni rappresentati. La pubblicazione, che fa un po’ la storia del palazzo, dalla scelta della sede, al progetto, alle strutture murarie, al portico, alla torre dell’orologio, alla Pinacoteca, agli eventi bellici, è arricchito da un prezioso contributo di Clara Gelao sulle strutture e sulla funzione della Pinacoteca Provinciale, la cui istituzione ufficiale risale al 12 luglio 1928. Il giornalista Antonio Rossano, scomparso qualche mese fa, che firmò la prefazione, scrisse, tra l’altro: «La sensazione più singolare è quella di ammirare per la prima volta un palazzo che, pure, conosciamo bene. Merito dell’accurato lavoro di ricerca condotto dall’autore». Un palazzo centrale nella storia dello sviluppo di Bari, che ha impresso e tuttora imprime un marchio, nel bene e nel male, all’intero tracciato del lungomare urbano.

Le pietre preziose tra curiosità e leggenda

di Vittorio Polito

Un giorno un cinese chiese a un saggio eremita di aiutarlo a trovare una grande quantità di gemme. «Purché tu voglia – rispose l’eremita – anche i sassi del mare diventeranno gemme». La risposta deluse il povero cinese, che non si aspettava una verità così semplice, infatti la gemma è tale solo se l’uomo la nobilita attraverso il desiderio di possederla e di metterla in mostra.
In realtà la funzione del gioiello è assai complessa, vi sono primitivi che riconoscono ad esso un carattere sacro; ma il compito più comune che sono chiamati ad assolvere consiste nel dare il tocco finale alla trasformazione della donna in idolo e le pietre preziose sono componenti essenziali a completare i gioielli.
Le pietre preziose, infatti, sono minerali rari e di notevole pregio estetico, a seconda della durezza, trasparenza, rifrattività, intensità e omogeneità di tinte delle pietre colorate. Utilizzate soprattutto in gioielleria, vengono tagliate e levigate a seconda della grandezza della pietra o della moda corrente. La più nota è il diamante seguita dal rubino, smeraldo, zaffiro, topazio, con tutta la loro gamma di colori. Le gemme erano utilizzate anche in magia e in medicina. Alcuni lapidari medievali (quei trattati che, analogamente agli erbari per le specie vegetali e ai bestiari per gli animali), ne descrivevano minuziosamente caratteristiche e proprietà magiche e medicamentose.
Ma come nascono le pietre preziose? A parte il diamante, composto da ossido di carbonio, che opportunamente tagliato acquista il caratteristico “fuoco” o “brio” è chiamato in gioielleria “brillante”. È solitamente colorato debolmente, come il giallo paglierino, ma vi sono anche varietà come il verde, il bruno e il grigio che sono rarissimi. I diamanti più famosi sono una dozzina. Ne ricorderò qualcuno: il Kho-I-Noor (montagna di luce) menzionato per la prima volta nel 1304, attualmente si trova tra i gioielli della Corona Britannica e pesa ben 108,93 carati; il Cullinan, il più grande diamante mai trovato (grezzo pesava 3106 carati), tagliato successivamente in 9 pietre maggiori e 96 pietre più piccole; la Stella d’Africa, che rappresenta la più grande pietra tagliata dal precedente Cullinan, anch’esso tra i gioielli della Corona Britannica. Pesa 530,20 carati ed è composto da 74 faccette.
Le altre pietre sono frutto di “errori” della natura, infatti, se fossero pure sarebbero perfettamente trasparenti, come il quarzo. Se nel suo interno varia il numero di atomi, allora si colora variamente e se si “intrufola” del ferro allora diventa ametista, se poi la pietra viene riscaldata, varia ancora e diventa topazio. Gli ‘incidenti’ di percorso della natura hanno concorso a regalarci, tra le altre, tre bellissime pietre rappresentate dallo zaffiro, dal rubino e dallo smeraldo. Lo zaffiro (un cristallo incolore chiamato corindone), piace molto per il suo blu intenso che è il frutto di un “magico” sbaglio dovuto alla presenza di ferro e titanio. Il rubino, che è sempre corindone, è diventato rosso in quanto al posto di alcuni atomi di alluminio vengono intrappolati atomi di cromo. Lo smeraldo, che allo stato puro è berillo (ossido di alluminio arricchito di silicio e berillo), se subisce la trasformazione di un atomo di cromo in uno di alluminio, allora assume un colore verde brillante e diventa appunto un prezioso smeraldo. Il topazio è una gemma piuttosto rara che attira con i suoi colori tenui ma lucenti. Pare che il suo nome derivi da topas, parola che nel sanscrito significa “fuoco” e che Papa Clemente VI lo usasse in occasione delle sue visite agli ammalati di peste e che ciò provocasse delle guarigioni. Nel medioevo, invece, aveva fama di scacciare malocchio e stregoneria. È stata famosa come pietra della saggezza e in Cina era appesa alla porta di casa per donare salute e felicità alla famiglia.
Oggi si parla anche di cristalloterapia, una pratica della medicina alternativa che prevede di raggiungere il benessere, la cura della salute e la guarigione da determinate patologie grazie all’applicazione di diversi tipi di minerali.
Il topazio azzurro, ad esempio, ha azioni benefiche sul fisico poiché pare che funzioni contro l’inappetenza, l’agitazione psichica, i disturbi della voce e le allucinazioni; quello rosa aiuta a scoprire il vero senso dell’amore e la comprensione del prossimo; il giallo tonifica e rende elastica la pelle mentre quello rosso è particolarmente adatto alla cura delle affezioni del sangue e dei tessuti in genere. Infine, il topazio imperiale, di pregiata varietà, presente in alcune miniere brasiliane, ha varie tonalità dal giallo al rosso-cherry scuro. La foto mostra “l’anello sole”, un esemplare di topazio di colore giallo, montato su un anello, realizzato dal maestro orafo barese, Felice Caradonna.
L’uomo, che per motivi di lucro segue attentamente la produzione naturale, ha subito scoperto il trucco provvedendo a creare pietre preziose sintetiche attraverso il vetro, che come il quarzo, contiene molto silicio ed è trasparente ma, se durante la fusione si aggiungono altri minerali, lo stesso assume colorazioni stupefacenti, fino a ottenere la gamma cromatica che i maestri vetrai ed i maghi della bigiotteria utilizzano per le loro produzioni.

La moda? La più eccellente delle farse

Scritto da Vittorio Polito

Martedì 05 Luglio 2011 23:15   

La moda? Secondo il poeta e scrittore francese André Suarès (1868-1948), è la più eccellente della farse, quella in cui nessuno ride perché tutti vi recitano. La moda ha origini remote ed è un fenomeno sociale consistente nell’affermarsi in un determinato momento storico e in una data area geografica e culturale. Si fa risalire addirittura alla preistoria e pare che le prime vesti si somigliassero molto, ma quando si sviluppò, per motivi di razza e ambiente, un diverso senso di religiosità, anche l’aspetto del vestire si modificò.

Reperti rinvenuti in Mesopotamia testimoniano la ricchezza degli indumenti, la varietà dei tessuti, la fastosità degli ornamenti, mentre gli Egizi, grazie ad un artigianato espertissimo in filatura, tessitura e tintura del lino, furono all’avanguardia dell’eleganza. Successivamente cinesi, cretesi, greci, etruschi e romani si contesero il primato dell’arte.

In Europa la tendenza fu quella di creare costumi caratteristici popolari originali e gradevoli. Nell’età contemporanea con lo sviluppo della praticità e dell’igiene, hanno contribuito ad offrire alla moda un dominio sempre più vasto e differente. Si passa, infatti, dai tessuti grigi e spessi degli anni quaranta, ai pastelli dei cinquanta, ai risalti geometrici dei sessanta, ai fiori dei settanta, alle spalle grosse degli ottanta e alla prevalenza del nero degli anni novanta e così via.

I primi a liberare le donne dal busto (corpetto in tessuto aderente o elastico, spesso armato di stecche, con cui si stringono i fianchi e l’addome), furono Mariano Fortuny (1838-1874) e Paul Poiret (1879-1944) e, mentre tra le pietre miliari della sartoria è doveroso ricordare Madeleine Vionnet (1876-1975), con i suoi irripetibili ritmi ed equilibrio dei drappeggi e degli sbiechi. Ma le vere rivoluzioni concettuali furono quelle volute dalla stilista inglese Mary Quant (1934-), l’inventrice della minigonna, negli anni sessanta, periodo in cui si cercava di ridefinire una nuova morale. Le intuizioni di Coco Chanel (1883-1971), sono fondamentali per la storia della moda, poiché introdusse il concetto di bigiotteria, di gioiello come audacia estetica che riuniva insieme sogno e praticità.

Christian Dior propose il New Look, l’ottimismo estetico, con grandi quantità di tessuto, la vita stretta e il busto segnato: era terminato il tempo del dolore mentre sopraggiungeva il gusto di vivere, di colorare la quotidianità, insomma il senso di libertà ritrovata, il tutto enfatizzato dalle commedie americane.

Il pret-à-porter, nato negli anni sessanta, pone la moda di fronte  al dilemma tra esclusività e diffusione. Ma in quegli anni è successo di tutto: la minigonna, la moda fumetto, l’arte pop, le geometrie di André Courrège (1923-), Paco Rabanne (1934-), Pierre Cardin (1922-) e gli altri. In quegli anni si compiono i passi più importanti ed i materiali che utilizziamo oggi sono spesso le sintesi ultratecnologiche di elementi inventati allora.

Ecco affacciarsi negli anni ’70 il made in Italy con Walter Albini (1941-1983), Giorgio Armani (1934-), Krizia (Mariuccia Mandelli 1935-), Ottavio Missoni (1921-). Negli anni ’80 si arriva all’esasperazione del concetto di griffe e Gianni Versace (1946-1997), rappresenta autorevolmente il periodo. Nasce la bellezza plastica, il maschile ed il femminile si avvicinano (Basile e Armani). Romeo Gigli (1949-), toglie le spalline e ingentilisce la figura facendo tornare alla memoria gli anni venti.

Oggi, per esigenze di produzione industriale la moda diventa prodotto, cioè “abbigliamento” e non più “moda”. Si riscopre la libertà di fare a meno di tutto, si coltiva l’individualità. Ormai gli stilisti non impongono più, suggeriscono. Negli ultimi anni il mix di proposte non conosce confini: si va dal rètro al bricolage, dal tecno all’orientale. E per gli stilisti la sfida è ancora più stimolante. La donna riconosciuta nei suoi valori, non ha più bisogno di forme mascoline, rigide ed austere per imporsi: la lotta per dimostrare il proprio valore continua, ma il ruolo conquistato consente il riconoscimento di una genuina e prorompente femminilità.

E per finire qualche pensiero sulla moda. Secondo il filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976), «…la logica della moda vuole che l’abito sia la veste del momento in attesa del prossimo», mentre per Mary Quant, stilista inglese, «Un tempo la moda la facevano i ricchi e i detentori del potere. Gli altri si adeguavano. Adesso la moda la fanno le ragazzine e le duchesse la copiano». Ed io mi pongo una domanda: chissà quante foglie di fico avrà provato Eva prima di dire: scelgo questa, anche perché la foglia scelta avrà avuto pure una forma graziosa ed utile allo scopo, ma sempre così uguale… una noia.

 giovedì 29 settembre 2011

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Famosi? Ma ognuno col suo male

di Vittorio Polito

Molte sono le persone che testimoniano quanto la malattia, piccola o grande che sia, con i suoi inevitabili impedimenti, difficilmente accettata inizialmente, ci accompagnerà sempre, ma noi abbiamo il potere di sfruttarla convivendo con lei, mentre per qualcuno potrà rappresentare anche uno stimolo per la creazione artistica. Questa tesi era già sostenuta dallo scrittore Pietro Verri (1728-1797), che così scriveva: «La musica, la pittura, la poesia, tutte belle arti, hanno per base i dolori innominati: in guisa tale che, se gli uomini fossero perfettamente sani ed allegri, non sarebbero nate mai le belle arti. Questi mali sono la sorgente di tutti i piaceri più delicati della vita».
Thomas Mann (1875-1955), scrittore tedesco, era solito affermare che rispetto ai soggetti normali l’artista si distingue per il fatto che presenta più difficoltà ad esprimersi. La conferma viene da Edvard Munch (1863-1944), il pittore degli incubi, contemporaneo di Ibsen e Strindberg, considerato il massimo artista norvegese, che sosteneva: «…senza malattia né angoscia sarei stato una barca senza timone».
Grandi malati furono anche Vincent Van Gogh (1853-1890), affetto da schizofrenia, Henry Matisse, che soffriva di grave enteropatia cronica, Toulouse Lautrec (1864-1901), che oltre ad essere un affezionato seguace di Bacco, era affetto da deformità scheletriche e da sifilide. Edgar Degas (1834-1917), accusava gravi disturbi visivi, mentre Amedeo Modigliani (1884-1920), era tubercolotico. Masaccio (soprannome di Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai, 1401-1428), il cui nome vuol significare vestito di stracci, morto a soli a 27 anni, era considerato un genio un po’ matto poiché con la testa immersa nel suo lavoro si dimenticava di mangiare o di farsi riparare un abito strappato e nonostante la sua brevissima vita è riuscito a dare una svolta alla storia della pittura. Per non parlare di Sigmund Freud (1856-1939), Francisco Goya (1746-1828) e Oscar Wilde (2854-1900), tutti affetti da malattie dell’orecchio o da sordità.
Alcuni sostengono che un po’ di follia e certe malattie danno vita alla creatività di un’artista, molto di più della normalità psicofisica. Infatti, lo stesso Toulouse-Lautrec, riesce a convivere con la sua deformità, ma gli altri, non geniali, che vogliono (a volte) possono guarire? Artisti o no ci tocca mettere in discussione alcuni concetti sulla nostra salute o sulla nostra malattia e per farlo ci aiutano due neuropsichiatri, Abraham e Peregrini, che qualche anno fa hanno pubblicato il volume “Ammalarsi fa bene” (Feltrinelli), attraverso il quale dimostrano, con prove, il grande aiuto prodotto dalla psicoemotività, una sorta di prontuario con le istruzioni per girare tra malattie che ne evitano altre. Nel libro citato c’è quanto basta per capire che chi è sano è più solo, mentre chi “scoppia” di salute farà bene a fingere di soffrire qualche malanno. Inoltre gli autori tentano di spiegarci come impossessarsi della malattia, del disagio e come occorra dominarli per non essere dominati, poiché l’errore più comune è quello di mascherarli. Nessuno ammette con gli altri, ma prima con se stesso, la propria fragilità fisica e/o mentale. Essere sani, belli, efficienti. Chi non appartiene a questa tribù, si sente indegno di far parte del «felice villaggio globale».
Più recentemente è stato pubblicato il volume di Luciano Sterpellone “Famosi e malati” (Editrice SEI, Torino), il quale fa un’ampia rassegna dei malati famosi.
In campo musicale si ipotizza che pochi maestri ‘scoppiavano’ di salute. Fra i più malridotti figurano Antonio Vivaldi (1678-1741), creatore di tanta stupenda musica per “Le quattro stagioni”, portatore di asma bronchiale, morì per una “infiammazione interna”; Niccolò Paganini (1782-1840), affetto da tubercolosi; Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791, che dopo aver contratto una lieve forma di vaiolo nel 1767, fu colpito nel 1788 da una crisi depressiva e creativa, si ammalò anche di insufficienza renale e forse di schizofrenia. Ma, nel 1791, con l’improvviso e straordinario risveglio della vena creativa: compone ‘Clemenza di Tito’, ‘Flauto Magico’, ‘Concerto per clarinetto’ e il ‘Requiem’. Quest’ultimo rimasto incompiuto a causa della morte, avvenuta il 5 dicembre dello stesso anno, per una “febbre da infiammazione reumatica”. È recente la notizia secondo la quale Mozart sarebbe morto perché colpito da “trichinosi” per aver mangiato troppe costolette di maiale poco cotte.
Johann Sebastian Bach (1685-1750), famoso compositore tedesco, miope da giovane, aveva sviluppato una cataratta che un micidiale oculista, John Taylor, rivelatosi un ciarlatano, introdusse nell’occhio del musicista un preparato a base di mercurio, costringendo il malcapitato a sottoporsi solo una settimana dopo ad un nuovo intervento. Era affetto da obesità, ipertensione arteriosa e soffrì di vari ‘colpi’ cerebro-vascolari, uno dei quali complicato da una non meglio identificata ‘febbre miliare’, che lo portò a morte.
Ludwig van Beethoven (1685-1750), il celeberrimo sordo che conquistò il mondo scrivendo capolavori, specie nell’ultimo decennio di vita, versava in condizioni piuttosto gravi, tanto da tentare il suicidio. Infatti in una lettera indirizzata ad un amico, Beethoven scriveva: «… e poco ci mancò che mi togliessi la vita. Solo l’arte mi ha trattenuto di farlo. Mi è parso impossibile lasciare questo mondo prima di avere pienamente realizzato ciò di cui mi sentivo capace». Il Maestro che era un buon bevitore, soffriva anche di cirrosi epatica. Beethoven era molto miope e quindi usava le lenti sin da piccolo e forse per questo motivo scrisse un “Duetto con due occhiali per viola e violoncello”. A causa della sua nota sordità trascorse sei mesi nell’arcadica atmosfera di Heiligenbstadt, oggi un trafficato quartiere viennese, «lontano dai rumori per riposare l’affaticato organo dell’udito», ove compose la Sesta Sinfonia, detta Pastorale. Purtroppo la perdita dell’udito sarà progressiva, sino alla sordità completa. Tutte le terapie prescritte (suffumigi, diuretici, lavaggi, acque termali, correnti galvaniche, magnetismo), si rivelarono inutili, se non dannose. Molto probabilmente si trattò di una otosclerosi, una ossificazione della staffa, uno degli ossicini dell’orecchio, che attualmente si cura con elevato successo, sostituendola. Il noto compositore soffriva anche di cirrosi epatica, forse dovuta alla sua documentata propensione verso l’alcol, e si ipotizza che sia stata proprio questa la causa della sua fine.
Vincenzo Bellini (1801-1835), che morì a soli 34 anni, dette adito a ipotesi di avvelenamento e per porre fine a quelle voci sempre più insistenti, dovette intervenire personalmente il re Luigi Filippo, che incaricò un professore della Facoltà di Medicina di eseguire l’autopsia sul corpo del musicista. In realtà fu esclusa l’ipotesi di avvelenamento ma la causa della morte fu attribuita ad una «infiammazione dell’intestino crasso, complicata da ascesso del fegato». Il musicista catanese soffriva molto il caldo ed aveva frequenti coliche intestinali che cercava di dominare… con i purganti. Il reperto autoptico dette adito a varie ipotesi diagnostiche, come la colite ulcerosa, la sindrome del colon irritabile, ecc.
Yasser Arafat (1929-2004), prese parte alle guerre contro Israele del 1948 e 1956 nelle file dell’esercito egiziano e fu eletto nel 1970 presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Arafat soffriva di ipertensione arteriosa complicata da arteriosclerosi e numerosi furono gli episodi di angina pectoris, favoriti dalla sua vita convulsa e continuamente a rischio. La morte è sopravvenuta in seguito ad una emorragia cerebrale, dopo 27 giorni di coma. Recentemente sono state avanzate insistenti ipotesi di avvelenamento e per dissimulare l’azione del veleno sarebbe stato iniettato il virus HIV dell’Aids.
Maria Callas (1923-1977), celebre soprano statunitense di origine greca, scomparsa nel 1977, fu colpita da una delle massime sfortune per una cantante: perdere la voce. La diagnosi tardivamente formulata fu di “dermatomiosite”, una malattia che colpisce i tessuti connettivi e nel caso della Callas colpì proprio l’organo della fonazione, la laringe, che le procurava improvvisi abbassamenti di voce. I soliti detrattori attribuivano il fenomeno alle vicende sentimentali della cantante che tanto la angosciavano. La diagnosi fu fatta tardivamente ma fu introdotta una accurata terapia cortisonica che contribuì a migliorare i toni vocali. Un anno dopo Maria Callas si spense, forse a causa di un infarto del miocardio, compatibile con la stessa dermatomiosite della quale era portatrice.
Fryderyk Chopin (1810-1849), mentre soggiornava a Palma de Majorca con il suo amico George Sand, si manifestò, circa dieci anni prima della morte, il processo tubercolare. Nonostante i chiari segni della malattia un medico, tal Papet, diagnosticò una «modica infiammazione della trachea senza segni di tubercolosi polmonare» (?). Chopin, persona estremamente sensibile, molto geloso ed irascibile, aveva sofferto in passato di varie affezioni delle vie respiratorie ed aveva seguito varie terapie in stazioni termali, equitazione, dieta con mucillagine d’avena, infuso di ghiandole tostate, ecc., tutte terapie non seguite da alcun giovamento. L’autore dei bei notturni soffriva anche di “allucinazioni uditive”, gli sembrava di udire le campane della chiesa che suonavano a morte per il suo funerale. In questa condizione compose la “Sonata in si bemolle maggiore”, di cui fa parte la “Marcia funebre”.
Gabriele D’Annunzio (1863-1938), celebre non solo come scrittore ma anche per le sue stravaganze, narcisista e megalomane, volle essere al centro dell’attenzione sia nelle sue battaglie “guerriere” che sentimentali.
Dopo un intervento subito nel 1929, gli fu consigliata la somministrazione di un purgante “per muovere l’intestino”, ma il vate rifiutò sdegnosamente di sottostare alla «volgarità dell’olio di ricino» ed allora si utilizzò un espediente: il purgante fu messo in un bicchiere con mentuccia e champagne. Morì per un’emorragia cerebrale. Come per altri personaggi famosi anche per D’Annunzio si parlò di suicidio, ma con molta probabilità quella del suicidio fu solo un’interpretazione un po’ fantasiosa di quel desiderio di sparire, che spesse volte manifestava.
Giorgio De Chirico (1888-1978), nato in Grecia, fin dalla sua giovinezza soffriva di frequenti cefalee, alle quali fu attribuita quella “rivoluzione” della pittura del Novecento (la metafisica), della quale fu riconosciuto l’ispiratore. Il pittore soffriva di “febbri spirituali”, come egli stesso li definiva, ma la scienza attuale li riconosce come forme patologiche che generano visioni alterate e allucinatorie.
Marlene Dietrich (1901-1992), con «le gambe più sexy del mondo», proprio quelle avrebbero decretato la fine della splendida carriera dell’attrice. Il motivo? L’osteoporosi sopravvenuta alla menopausa che colpì l’articolazione dell’anca costringendola in casa per dodici anni. Gli ultimi della sua vita. La preoccupazione maggiore dell’attrice non era tanto l’eventualità di nuove fratture, quanto quella di apparire a chiunque in condizioni precarie. La sua fine è da attribuire ad un ictus cerebrale, almeno così è considerato ufficialmente il motivo della sua morte. Ma vent’anni dopo la sua segretaria, fornì una versione diversa. Un suo nipote, che la Dietrich odiava, propose di ricoverarla in una casa di cura. L’attrice che udì tutto dalla sua stanza da letto lo fece cacciare di casa insieme ad altri parenti, poi chiese alla segretaria di portarle i soliti sonniferi. Pochi momenti dopo, quando la segretaria rientrò in camera, vide il flacone vuoto e la donna riversa sul letto.
Albert Einstein (1879-1955), il bambino che secondo il pronostico del padre «non avrebbe mai combinato nulla di buono nella vita», era considerato a 26 anni già un genio dal mondo scientifico. Certamente a dieci anni aveva difficoltà ad eseguire operazioni aritmetiche, ma aveva una passione per il violino e preferiva Mozart e Vivaldi. «La relatività? Pensate cos’è un minuto con i piedi sui carboni ardenti, e un minuto con una bella ragazza su un prato…». Einstein soffriva di ipertensione arteriosa, causa di un’arteriosclerosi generalizzata e di una lesione aortica che fu poi causa della sua morte. Einstein fu colpito da una lunga malattia, forse una miocardite. Nel 1948, sette anni prima della fine, fu colpito da improvvisi dolori addominali e da vomito. L’intervento chirurgico mise in evidenza una cirrosi epatica ed un aneurisma dell’aorta addominale. Ma Einstein non seguì mai troppo fedelmente i consigli dei medici. Sosteneva che «Si può anche morire senza l’aiuto dei medici».
Robert Schumann (1810-1856), compositore tedesco, grande innovatore della musica romantica, forte bevitore di birra e fumatore di sigari, bella presenza, aveva un pessimo carattere e quindi difficoltà a stabilire rapporti cordiali. Soffrì di “allucinazioni acustiche”, di varie patologie e di depressione, al punto che per ben due volte tentò il suicidio. Si ricoverò spontaneamente in una clinica per malattie mentali e nel giro di un paio d’anni perdette l’uso della voce, rifiutandosi anche di mangiare. La diagnosi psichiatrica fu di “psicosi maniaco-depressiva”.
Giovanni XXIII, al secolo Angelo Roncalli (1881-1963), soffriva di disturbi allo stomaco che rivelarono successivamente un cancro. Le sue condizioni peggiorarono dopo la sua elezione e nel 1963 morì a causa delle frequenti emorragie gastriche.
Giovanni Paolo II , Karol Wojtyla (1920-2005) ). Non aveva avuto particolari problemi di salute, se si eccettua un incidente subito nel 1944, quando fu travolto da un camion militare e riportò una lieve frattura cranica. Dopo il noto attentato subito per mano di Alì Agca, fu operato per un voluminoso tumore benigno al colon. Successivamente, in seguito ad una caduta, si lussò la spalla e si fratturò la scapola. Qualche anno dopo, la sera prima di un programmato viaggio in Sicilia, cadde nuovamente e si fratturò il collo del femore e gli fu impiantata una protesi artificiale che lo costrinsero dapprima a camminare con un bastone e successivamente a muoversi su una sedia a rotelle. Subì ancora un intervento per asportazione dell’appendice e si affacciò una nuova malattia: il morbo di Parkinson seguito anche da una ipertrofia prostatica. La situazione si aggravò nel marzo 2005 per una infezione polmonare prima e il sopravvenire, dopo, di crisi anginose, ipotensione e blocco renale. Così il Papa venuto da lontano che influenzò notevolmente la storia del XX secolo, si spense la notte del 2 aprile 2005.
Anche per l’organista barese Donato Marrone, la cecità gli fu probabilmente d’aiuto nell’esprimersi musicalmente. Un musicista ed un ottimo pianista-organista, con un grande cuore ed una totale dedizione alla musica. Secondo Vito Maurogiovanni, «Donato Marrone era una figura ben conosciuta nella città. Lo vedevamo spesso in giro per la strade, doveva raggiungere le chiese dove suonava l’organo per le funzioni solenni. Lo accompagnavano in quel tragitto quasi tutti i suoi piccoli figli che diventavano così gli angeli custodi di quel padre alto, robusto e famoso; ma era un uomo debole con le pupille spente, i lunghi capelli da musicista, un sorriso bonario eternamente stampato sul suo viso ispirato di artista».

Concludendo «stare bene non vuol dire “scoppiare di salute…” ascoltare i segnali del malessere significa usare il sistema di allarme di cui siamo dotati, solo così la nostra vita riesce a trovare un equilibrio con allarmi e squilibri quotidiani».


 

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