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Da “CONFCOMMERCIO MAGAZINE, N. 2, 2011, PAG. 38
LA GOLA TRA
COMUNICAZIONE, VIZI E CURIOSITÀ
di
Vittorio Polito.
La gola, termine generico con cui si
designa soprattutto la faringe e la parte alta del tratto laringo-tracheale,
rappresenta una parte anatomica vitale del collo, in quanto racchiude la laringe
che è l’organo della respirazione, della fonazione, del linguaggio e quindi
della comunicazione. La gola, opportunamente protetta da idonea muscolatura, è
stata definita nodo ferroviario, attraverso il quale passano le connessioni
vitali tra organi ed apparati, come la bocca, il naso, la laringe, la faringe, i
polmoni e lo stomaco. Inoltre, attraverso questo tunnel, passa il grande binario
della circolazione sanguigna che collega due organi anatomici eccellenti: cuore
e cervello.
La gola, oltre a racchiudere le importanti funzioni già dette, è anche la porta
di accesso di tutte le squisitezze della vita alimentare ed è sinonimo di
ghiottoneria, ingordigia, golosità e come tale considerata dalla morale
cattolica uno dei sette peccati capitali.
La differenza della gola tra i due sessi è ben visibile: nell’uomo è ben
evidente, nella donna meno, quella sporgenza anatomica chiamata “pomo d’Adamo”,
che mentre ci ricorda il peccato originale, altro non è che la punta (osso
ioide) di una cassa di risonanza (laringe) per le corde vocali. Il fatto poi che
nell’uomo è più grande, non è dovuto solo ad una struttura più robusta, ma anche
alla maggiore lunghezza delle corde vocali (18 mm. nell’uomo, 13 nella donna),
espressione di un diverso timbro vocale.
Il collo femminile? È generalmente più lungo e sottile di quello maschile,
simboleggia un’immagine di bellezza e femminilità, riconosciuto soprattutto nel
mondo della moda. In Birmania, invece, vivono donne-giraffa, che hanno un collo
più lungo di 2 o 3 volte il nostro, a causa di una serie di anelli o meglio di
spire metalliche che vengono messe alle bambine intorno ai 5-6 anni e in seguito
ne vengono aggiunte altre. In questo modo il collo può superare anche i 30
centimetri di lunghezza, subendo così una graduale deformazione di tutta la
struttura ossea delle spalle e delle clavicole, al punto che se gli anelli
dovessero essere rimossi le donne non riuscirebbero più a tenere su la testa a
causa dell’atrofia dei muscoli del collo. Gli anelli pare fossero utilizzati per
proteggersi dai morsi delle tigri, ma attualmente la legge vieta questa usanza
tribale.
Vito Lozito, docente universitario di Storia della Chiesa dell’Università di
Bari, scomparso qualche anno fa, nella sua pubblicazione “Alla radice del Vizio”
(Levante Editori), fa un’ampia disamina dei vizi capitali, ricordandoci, ad
esempio, attraverso una massima che deriva dall’Eunuchus di Terenzio, che
«L’atto amoroso, senza il supporto del cibo e del vino, infiacchisce». Ma, fatta
salva la morale, i cibi rappresentano un settore particolarmente interessante ai
quali l’essere vivente si è sempre servito per soddisfare le indispensabili
esigenze di sopravvivenza. Non va dimenticato che il primo uomo (Adamo), cadde
proprio per il peccato di gola. Infatti anche se il primo peccato fu, come
dicono molti, un peccato di superbia, se non avesse aggiunto il peccato di gola,
non sarebbe stato condannato, e con lui l’intero genere umano.
D’altro canto la Sacra Scrittura offre numerosi esempi di fatti dannosi,
provocati da eccessi alimentari e da ubriachezza. Esaù, personaggio dell’Antico
Testamento, figlio di Isacco e Rebecca, perdette la primogenitura per un piatto
di lenticchie, mentre Noè, a causa del vino, in uno stato di ebbrezza, mostrò le
sue nudità ai figli. Erode, invece, dopo aver banchettato ed in preda ai
richiami della lussuria ed eccitato dalla danza di Salomè, accettò di uccidere
Giovanni Battista.
A proposito della supremazia del linguaggio sulle altre forme di comunicazione,
ricordo uno degli episodi più inquietanti dell’Antico Testamento: quello della
Torre di Babele (Genesi, XI). Fin dall’antichità gli uomini avevano una chiara
consapevolezza del valore della comunicazione interumana e sapevano apprezzare
il potere ed il significato sociale. La leggenda narra che, al tempo del
racconto biblico, su tutta la Terra si parlava «una sola lingua con le stesse
parole» e proprio grazie all’universalità del loro linguaggio gli uomini si
sentirono talmente forti da costruire una torre che saliva fino al cielo,
provocando l’ira di Dio, di un Dio spesso geloso, come quello dell’Antico
Testamento. La condanna divina fu proprio la diversificazione delle lingue,
affinché gli uomini non si potessero più capire e si disperdessero su tutta la
Terra.
Anche l’arte italiana ha contribuito a dare rilievo al collo attraverso i
celebri dipinti La Bohèmienne e Madama Pompadour del grande Modigliani.
Altri riferimenti alla gola sono rappresentati da concetti allusivi e di uso
comune, come “avere il cuore in gola” (provare forte emozione), “avere l’acqua
alla gola” (essere in estremo pericolo, in gravissime difficoltà o costringere
qualcuno a far qualcosa o catturarlo con sfiziose ghiottonerie).
Per finire, qualche curiosa ricetta popolare regionale italiana e straniera
contro il mal di gola, ricordata da Luciano Sterpellone nel suo libro “Orecchi,
naso… e un po’ di gola” (A. Delfino Editore): “Spalmare sulla gola un po’ di
grasso di serpente” (Valle d’Aosta); “Applicare e fissare intorno al collo un
impacco di cenere calda” (Liguria); “Contro l’afonia, bere un quarto di latte in
cui sono stati bolliti due fichi” (Trentino); “Applicare al collo un sacchetto
di sabbia calda” (Lazio); “Frizionare la gola con olio caldo” (Campania) e, per
la Puglia, “Fare sciacqui e/o gargarismi con decotto di radice d’adonide - erba
rizomatosa - in mezzo bicchiere di acqua tiepida”.
E all’estero che succede? Per la Nuova Zelanda, “Avvolgere intorno al collo un
panno bagnato e ricoprirlo con un calzino di lana da uomo”; per la Svizzera
tedesca “Fare gargarismi con infuso d’aglio e salvia in parti uguali” e, infine,
per la Turchia, “Scarificare la cute del collo a livello della gola, e spargervi
fiori di camomilla. Avvolgere intorno alla gola della mussola sulla quale sono
stati schiacciati grani di pepe nero e noccioli d’oliva”.
Insomma paese che vai,
usanza che trovi!
E’ PIU’ INTELLIGENTE L’UOMO
O LA DONNA ?
di Vittorio Polito
Secondo il vocabolario
Treccani, intelligente è il soggetto dotato di intelletto e
d’intelligenza, che ha facoltà e capacità di intendere,
ovvero persona che ha intelligenza pronta e vivace, che
capisce e apprende con facilità, che vede e giudica le cose
con chiarezza. Secondo Alfred Binet, psicologo francese,
l’intelligenza è «la facoltà di giudicare, altrimenti detta
buon senso, senso pratico, iniziativa, capacità di adattarsi
alle circostanze. Giudicar bene, comprendere bene, ragionar
bene». Per lo psicologo Lorenzo Magri «L’intelligenza umana,
non si caratterizza come un fattore coerente e delineato,
piuttosto essa si manifesta ed esprime attraverso un insieme
numeroso di abilità, comportamenti, pensieri ed emozioni. La
storia ha contato molti tentativi di definire il concetto di
intelligenza in modo univoco, standard; tuttavia essi non
hanno avuto successo. Il motivo del loro insuccesso risiede
principalmente nel fatto che l’intelligenza non è qualcosa
che si possiede o non si possiede, bensì un mosaico di
elementi che trovano espressione in tutti i nostri
comportamenti e pensieri». Ma, a parte le
definizioni, spesso siamo tormentati dal dilemma se sia più
intelligente la donna o l’uomo? Secondo Richard Lynn,
psicologo dell’Università di Belfast, non vi sono dubbi, è
l’uomo, poiché – egli afferma – il peso del suo cervello è
maggiore. Ma pare che il peso non c’entri proprio nulla, ciò
che più conta è la complessità del cervello stesso, così
asserisce lo psicanalista Dino Origlia. In realtà il
cervello maschile pesa mediamente un etto in più di quello
femminile ed ha il 4% di neuroni in più, mentre quello
femminile ha un maggior numero di connessioni tra una
cellula e l’altra. La conferma che il
cervello femminile è più complesso viene anche da ricerche
americane ad opera di due neurofisiologi dell’Università di
Yale, Sally e Bennet Shaywitz, i quali hanno utilizzato un
nuovo apparecchio, la risonanza magnetica funzionale – FMRI
– in grado di registrare i segnali di lavoro cerebrale.
Presso l’Università dell’Indiana, invece, è stato notato che
i maschi impegnano nella conversazione un solo emisfero
cerebrale, mentre le donne li utilizzano entrambi, per cui è
più pronto ad ascoltare. La realtà è che l’organizzazione
del cervello è diversa nei due sessi, così capita che l’uomo
ha maggiori capacità di risolvere i problemi, mentre la
donna ha maggiori capacità nel comprenderli. Sta di fatto
che le tecniche di neuroimmagine hanno anche dimostrato che
gli uomini risolvono i problemi attivando solo il lato
sinistro del cervello, mentre le donne li usano tutti e due. Qualche curiosità: le
donne trasferiscono le informazioni tra i due emisferi
cerebrali più velocemente, nel linguaggio usano entrambi gli
emisferi, l’uomo solo il sinistro, mentre con l’avanzare
dell’età il cervello maschile si restringe più rapidamente
di quello femminile. Infine il risultato di una recentissima
indagine di ricercatori inglesi ci fa sapere anche che un
gruppo di soggetti con quoziente di intelligenza elevato
hanno anche più probabilità di vivere a lungo. Essi,
infatti, hanno controllato un gruppo di esami eseguiti nel
1932 riscontrando che coloro che avevano un quoziente di
intelligenza più elevato – media del 100 – al 1997 erano
ancora in vita.
In effetti, dare una
definizione dell’intelligenza appare difficile, poiché essa
si modifica nel tempo a seconda di circostanze e situazioni.
Secondo Howard Gardner, psiconeurologo americano, vi sono
almeno sei diversi tipi di intelligenza, classificabili in:
logico-matematica, creativa, linguistica, meccanica,
musicale, spaziale e corporeo-cinetica (quest’ultima
utilizzata dagli atleti). Nella famiglia Bach, ad esempio,
l’intelligenza musicale si sprecava, se solo si considera
che si sono contati ben 18 musicisti nell’arco di quattro
generazioni. In ogni caso, in natura non ha senso una specie
in cui un sesso sia migliore dell’altro ma ha più senso che
in una specie i due sessi siano maggiormente specializzati
in qualcosa. Se realmente le donne fossero migliori degli
uomini o viceversa la specie umana non sarebbe mai riuscita
a superare gli ostacoli dell’evoluzione. Secondo Leonardo Tondo,
psichiatra dell’Università di Harvard, «Le differenze
esistono, ma le loro conseguenze dipendono dal contesto
culturale sociale in cui si esprimono». Che poi intelligenti
si nasce o si diventi non si è ancora capito, ma da quello
che dicono gli esperti si ipotizza una predisposizione.
Anche Aldo Carotenuto, psicologo della personalità, è del
parere che tutti abbiamo un’intelligenza di base che va
stimolata sin dalla più piccola età attraverso giochi, fiabe
e contatto umano, eliminando così ogni perplessità, poco
importa se maschi o femmine. Ma attenzione, secondo Mohandas
Gandhi,
«L’eccesso di intelligenza è come un coltello senza
manico: ferisce chi l’usa».
FROM
di Vittorio Polito.
Qualcuno ha detto che «Vivere
senza amore e senza baci è vivere senza felicità», mentre Trilussa sosteneva
che «Il bacio è il più bel fiore che nasce nel giardino dell’amore». Ma
vediamo il significato di questo atto.
Il bacio è una delle manifestazioni di affetto più diffuse nel mondo. Ma che
cos’è un bacio? Un atto compiuto applicando le labbra e premendole, per un
tempo più o meno lungo, su persona o cosa in segno di amore, venerazione,
affetto, devozione, ecc.
Gli antropologi sostengono che il bacio deriverebbe dall’uso della madre di
passare piccoli bocconi alla prole in fase di svezzamento, mentre come gesto
erotico era conosciuto a molti popoli dell’antichità, come mongoli,
eschimesi, polinesiani e persino ai giapponesi.
I latini definirono tre tipi di baci: ‘osculum’ il bacio del rispetto; ‘savium’,
il bacio della libidine e degli amori e ‘basium’, quello dell’affetto. In
pratica, spiegava Isidoro di Siviglia, Santo, teologo e storico spagnolo, l’osculum
si dà ai figli, il basium alle mogli e il savium, quello utilizzato nei
contesti erotici, alle prostitute.
Erodoto, lo storico greco, racconta che già tra i persiani i baci erano un
gesto istituzionalizzato, ma baciare sulla bocca era un gesto fra pari,
baciare sulla guancia indicava lieve differenza sociale.
Anche nella Bibbia si parla di bacio: «Quando Labano sentì che era giunto
Giacobbe, gli corse incontro, l’abbracciò e lo baciò e lo condusse a casa
sua», (Genesi 29.13); «Intanto il Signore disse ad Aronne: - Va’ incontro a
Mosè verso il deserto – Egli andò e l’incontrò verso il monte di Dio, e lo
baciò», (Esodo 4.27). La stessa Passione di Cristo inizia con il bacio del
discepolo Giuda: «Colui che lo tradiva aveva dato loro questo segno: Chi
bacerò, è lui: prendetelo» (Matteo 26.48). Non si tratta di una novità,
infatti, nella cultura classica il bacio ebbe spesso la funzione di
rappresentare l’inganno, velato dal gesto più amichevole che l’uomo potesse
concepire. A questo punto sarà chiaro che il bacio a cui stiamo
maliziosamente pensando, non è affatto quello più importante dell’amore, ma
quello riferito alla amicizia, alla cortesia, alla fedeltà, all’ossequio.
L’episodio evangelico narrato da Matteo ci rimanda all’abitudine di
salutarsi col bacio, oggi praticata più che mai. Il problema è quello di
sapere quanti baci si debbano dare, e si passa dall’inflazionato baciarsi
sulle guance dei francesi al più contenuto omaggio del gentiluomo che solo
sfiora la mano della dama. Ma non tutti amano il saluto sotto questa forma,
che se è comune nel sud dell’Europa non lo è nel nord, dove il bacio sulle
guance provoca imbarazzo e arrossamento più del bacio sulle labbra. Andando
verso oriente le cose cambiano e giungiamo al bacio russo, variante politica
del bacio francese. Famosissima è la foto che ritrae l’unirsi delle labbra,
ad occhi chiusi, di Leonid Breznev, presidente del Soviet Supremo russo, ed
Erich Honecker, leader della Germania est, che suggellava un rapporto sulla
cui natura gli anticomunisti di una volta non ebbero mai dubbi. Ma la
malignità era fuori luogo, infatti gli uomini russi si baciano sulle labbra
e non lo fanno solo a partire da Stalin, ma lo facevano già in epoca
zarista. In una fotografia degli inizi del Novecento si vede lo zar Nicola
II dare il bacio tradizionale di Pasqua ai semplici marinai della sua
flotta, che in fila, attendono il loro turno. Ma anche sulla corazzata
Potemkin ci furono i “Giuda” che non fecero partire solo baci volanti ma
bordate rivoluzionarie.
Il bacio però è anche una convenzione. Dicono gli etologi che è proprio
l’unirsi delle labbra a distinguere l’uomo dall’animale, a fare del sesso al
fine di concepire, un incontro tra due anime. Ma è anche vero che il bacio è
un istinto naturale. Ricordate Tarzan, che pur non avendo vissuto da essere
umano, ma da onorata scimmia, sapeva baciare, e come baciava! la sua Jane,
pur non avendo avuto alcun insegnamento.
Molti sono i baci fatidici come, ad esempio, quello di Paolo e Francesca,
bacio tragico, il cui dolce sapore si trasformerà in atroce dolore. Il bacio
più celebre rimane quello che come linfa vitale ridesta la bella
addormentata nel bosco. Ma vi è anche quello del Conte Dracula che vive di
baci che avventate signorine o signore gli permettono di dare. Come dire di
baci straziami, ma anche di baci saziami! Ma, se manca la fantasia e non
sappiamo baciare cosa succede? Ecco alcuni consigli.
Il bacio delicato sulle palpebre: un modo molto romantico per comunicare che
l’amore rende ciechi. Il bacio alla francese: sicuramente il bacio più
intimo. La maggior parte delle persone considera questo bacio l’inizio di un
rapporto. Il bacio all’eschimese: un tenero strofinare di nasi. Il bacio
della farfalla: muovere le palpebre nelle zone erogene del nostro partner o
della nostra partner.
Ma attenzione! Oggi la situazione è un po’ diversa: se tenti di dare un
bacio rischi il carcere. Infatti, la Corte di Cassazione in una sentenza di
qualche anno fa, ha condannato un direttore di banca a 14 mesi di reclusione
ed a risarcire 1500 euro (1200 a copertura delle spese legali). Il danno
subito dalla donna fu quindi quantificato in 300 euro per aver tentato di
baciare, con un “mero sfioramento delle labbra”, una sua dipendente proprio
nel giorno di San Valentino del 2000.
Il bacio è anche gesto di potere e di ossequio. Basti ricordare il virile
“baciamo le mani” dei siciliani, molto ben esemplificato nel film “Il
padrino”. Ma vi è anche l’arte del bacio all’anello episcopale o papale che
richiede una notevole esperienza, o quello religioso e di rispetto al quale
ci ha abituati Giovanni Paolo II quando baciava la terra che visitava, o il
bacio al Crocifisso.
Santa Caterina da Siena baciava i piedi dei lebbrosi per umiltà e per
infondere loro coraggio, mentre Sant’Antonio, prima di recitare le sue
preghiere baciava Gesù Bambino.
Gli appassionati di cinema non avranno certamente dimenticato le scene
romantiche di «Casablanca» o il bacio più lungo della storia del cinema in «Notorius»
o la storia d’amore tra la bella attrice svedese Ingrid Bergman e il regista
italiano Roberto Rossellini che negli anni cinquanta occupava le pagine dei
rotocalchi.
Il bacio alla fine è entrato anche in pasticceria: molti dolci sono definiti
baci. I più noti sono quelli di cioccolato di una famosa azienda di Perugia
i quali sono sempre accompagnati da messaggi d’amore.
Per chi volesse saperne di più provvede un libro inglese “The kiss in
history” (Il bacio nella storia, Manchester University Press), una raccolta
di saggi sull’argomento a cura della sociologa Karen Harvey.
Ed ora qualche detto sull’argomento: “baciare i piedi a qualcuno” =
dimostrargli una devozione esagerata; “baciare per terra” = mostrarsi
riconoscente; “essere baciato dalla fortuna” = essere favorito dalla sorte
in modo insperato e inaspettato.
E per finire ricordo che la storia del bacio accompagna la storia stessa
dell’umanità, la sua arte come la sua letteratura, la vita pubblica come
quella privata. Senza dimenticare che il primo bacio non si scorda mai.
Il
problema comincia quando, col passare degli anni, non ricordiamo più quando
abbiamo dato l’ultimo.
Scienza:
la memoria? Un deposito di immagini e percezioni
di Vittorio Polito
Un tema di
grandissimo interesse è comprendere come sviluppare la capacità di apprendimento
e quali sono i meccanismi della memoria. Questa conoscenza può aiutare non solo
a migliorare le nostre prestazioni professionali ma anche i rapporti umani.
Cos'è la memoria? La capacità della mente di ritenere traccia di informazioni
relative a eventi, immagini, sensazioni, idee, ecc., di cui si sia avuto
esperienza e di rievocarle quando lo stimolo originario sia cessato (Vocabolario
Treccani).
Contrariamente a quanto crede la maggior parte di noi, la memoria non invecchia,
dal momento che le cellule cerebrali non hanno ricambio, come avviene invece per
il resto del corpo. Se così fosse avremmo bisogno di memorizzare continuamente
le nozioni. Certo si registra un certo declino con l'avanzare dell'età, ma non
così grave da implicare problemi seri per la nostra vita. La maggior parte dei
problemi legati alla perdita della memoria durante l'invecchiamento sono,
infatti, dovuti all'inattività e quindi alla mancanza di esercizio mentale. Come
gli altri organi del corpo, il cervello si atrofizza più rapidamente se non
viene usato. Molti studi in letteratura medica indicano nella continua
stimolazione della nostra mente la chiave per mantenere vive le cellule
cerebrali. Alcuni proverbi ricordano che «il ladro deve avere buona memoria» o
«le bugie hanno le gambe corte», nel senso che bisogna ricordare quel che si
dice, insomma dobbiamo avere una memoria efficiente, altrimenti… La storia di
Pinocchio è emblematica. Ce lo dice Collodi: «Le bugie, ragazzo mio, si
riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno
le gambe corte e le bugie che hanno il naso lungo». Il burattino, infatti, non
può mentire facilmente poiché ha il naso che si allunga quando le spara grosse.
Ma cos'è la memoria? La memoria è la capacità, comune a molti organismi, di
conservare traccia più o meno completa e duratura degli stimoli esterni
sperimentati e delle relative risposte. Con riferimento all'uomo, nel quale tale
funzione raggiunge la più elevata organizzazione, il termine indica sia la
capacità di ritenere traccia di informazioni relative a eventi, immagini,
sensazioni, idee, di cui si sia avuto esperienza, e di rievocarle alla bisogna.
Senza la memoria saremmo incapaci di vedere, di udire o di pensare. Non avremmo
un linguaggio per esprimere la nostra situazione e, di fatto, neppure il senso
della nostra identità personale. Cosa si ripone nella memoria? Secondo
Sant'Agostino, «I tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose
introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del
nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le
percezioni dei sensi e tutto ciò che vi fu messo al riparo o in disparte o che
l'oblio non ha ancora inghiottito e sepolto». Fino a poco tempo fa, la
maggioranza degli scienziati riteneva che la memoria cominciasse a funzionare
soltanto dopo la nascita, ma esperimenti di studiosi olandesi, condotti
attraverso l'addome della mamma, sembra smentirli. Capita di ricordare bene
quello che si è mangiato oggi, ma meno bene le pietanze di ieri e così via
retrocedendo nel tempo, mentre ricordiamo bene i numeri di telefono di casa,
dell'ufficio o di altre persone con le quali abbiamo continuamente contatto. Ma,
se notiamo una sequenza di otto o dieci cifre, difficilmente riusciamo a
ripeterla dopo qualche minuto, ma la dimentichiamo del tutto ancora qualche
altro minuto più tardi. Eppure i numeri telefonici che ricordiamo sono
ugualmente di otto-dieci cifre. Anche per l'abbigliamento è la stessa cosa,
mentre non ricordiamo quello di ieri, ricordiamo benissimo come eravamo
vestititi noi e gli altri nel giorno di un avvenimento importante. Questi sono
solo alcuni esempi per dimostrare come è vario ed articolato il concetto di
memoria. Senza i ricordi, l'esistenza non sarebbe altro che un succedersi di
episodi isolati e non collegati tra loro. Amore, amicizia e tutti gli
avvenimenti a noi legati vengono, invece, incamerati andando a costituire un
patrimonio cerebrale fondamentale. Cerchiamo di capire come funziona la memoria,
e come mantenerla efficiente nel tempo. Cominciamo a dire che bisogna
distinguere quella a breve ed a lungo termine. Nel primo caso la mente
immagazzina informazioni ricevute nelle ultime ore, nel secondo caso l'uomo è
capace di archiviare una quantità illimitata di dati e di conservarli per tutta
la vita. Cosa possiamo fare per aiutare la memoria? Qualche volta
capita di essere alla ricerca degli occhiali o delle chiavi della macchina.
Prestate attenzione alle vostre azioni per risparmiarvi momenti di frustrazione
e di panico. Per esempio, impiegherete solo qualche secondo per dire a voi
stessi: «sto mettendo le chiavi nella tasca della giacca» o «sto posando gli
occhiali sul comodino». Per ricordare, invece, liste di numeri o altre
informazioni, basta suddividerle e raggrupparle. Esempio: ricordare un numero
come 3013661755, può facilmente essere ricordato come 301 366 1755, mentre per
ricordare quali sono i mesi dell'anno che hanno solo trenta giorni è sufficiente
memorizzare la famosa filastrocca imparata da piccoli: «trenta giorni ha
novembre con aprile, giugno e settembre, di ventotto ce n'è uno, tutti gli altri
ne hanno trentuno». Come tutti i processi fisiologici anche la memoria può
essere colpita da qualche 'insulto' patologico o da qualche incidente, per cui
si potrebbe avere una diminuzione della capacità mnemonica o la completa
assenza: nei casi più gravi si parla di amnesia, che può assumere aspetti di
gravità differenti. Il morbo di Alzheimer o demenza senile, è una tra le forme
più gravi che procura assenza di ricordi, associata a sintomi ancor più seri
quali l'incapacità linguistica e la mancanza di orientamento spazio-temporale.
Insomma, la memoria è indispensabile in quanto rappresenta la nostra coerenza,
la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire. Per quel che
ci è dato di fare, alleniamola per tenerla in efficienza.
Senza di essa non
siamo nulla.
IL PALAZZO DELLA
PROVINCIA
di Vittorio Polito
Sull’incantevole lungomare di
Bari si allineano maestosi palazzi privati e pubblici, il più bello di tutti
quello della Provincia con la sua maestosa torre dell’orologio. L’edificio fu
realizzato su progetto dell’ing. Luigi Baffa, nativo di Galatina (Lecce), con
varianti dell’ingegnere Vincenzo Chiaia, incaricato alla successione della
direzione dei lavori, in seguito alla morte di Baffa (11 novembre 1933), a causa
di un incidente stradale.
L’architetto Saverio Giannatempo ha pensato bene di descriverlo accuratamente
nella pubblicazione “Il Palazzo della Provincia di Bari”, edito da Mario Adda
Editore, particolarmente attento a diffondere eleganti edizioni sulla nostra
bella città.
La torre dell’orologio, che dà maestosità al Palazzo, si fregiò della dedica «Ai
Martiri della Provincia Ovunque e Comunque Caduti nell’Ultima Grande Guerra e
nella Rivoluzione Fascista», mentre alla fine del 1933 si pose mano all’appalto
per la fornitura dell’orologio per cui furono invitate sette ditte.
I decori, la maestosità delle stanze, la splendida Torre, la Sala del Colonnato,
la Sala Consiliare, la scalinata, rappresentano un prezioso esempio di
architettura e testimonianza del passato. Nella Sala Consiliare non manca
neanche il Palco della Musica, destinato a interventi musicali e, per tale
scopo, fu allora data facoltà, alla ditta esecutrice, di decidere la
conformazione più adatta alla ottimale diffusione dei suoni. Da decenni, il
Palco purtroppo è inagibile, nonostante le promesse dell’ex presidente Divella,
che assicurò il restauro e l’agibilità.
Un volume, come scrive nella presentazione Marcello Vernola, Presidente della
Provincia pro tempore, che rimarrà nella storia a testimonianza del valore
estetico e funzionale di una sede istituzionale, centro della vita
amministrativa dei 48 comuni rappresentati.
La pubblicazione, che fa un po’ la storia del palazzo, dalla scelta della sede,
al progetto, alle strutture murarie, al portico, alla torre dell’orologio, alla
Pinacoteca, agli eventi bellici, è arricchito da un prezioso contributo di Clara
Gelao sulle strutture e sulla funzione della Pinacoteca Provinciale, la cui
istituzione ufficiale risale al 12 luglio 1928.
Il giornalista Antonio Rossano, scomparso qualche mese fa, che firmò la
prefazione, scrisse, tra l’altro: «La sensazione più singolare è quella di
ammirare per la prima volta un palazzo che, pure, conosciamo bene. Merito
dell’accurato lavoro di ricerca condotto dall’autore». Un palazzo centrale nella
storia dello sviluppo di Bari, che ha impresso e tuttora imprime un marchio, nel
bene e nel male, all’intero tracciato del lungomare urbano.
di Vittorio Polito
Un giorno un cinese
chiese a un saggio eremita di aiutarlo a trovare una grande quantità di gemme.
«Purché tu voglia – rispose l’eremita – anche i sassi del mare diventeranno
gemme». La risposta deluse il povero cinese, che non si aspettava una verità
così semplice, infatti la gemma è tale solo se l’uomo la nobilita attraverso il
desiderio di possederla e di metterla in mostra.
In realtà la funzione del gioiello è assai complessa, vi sono primitivi che
riconoscono ad esso un carattere sacro; ma il compito più comune che sono
chiamati ad assolvere consiste nel dare il tocco finale alla trasformazione
della donna in idolo e le pietre preziose sono componenti essenziali a
completare i gioielli.
Le pietre preziose, infatti, sono minerali rari e di notevole pregio estetico, a
seconda della durezza, trasparenza, rifrattività, intensità e omogeneità di
tinte delle pietre colorate. Utilizzate soprattutto in gioielleria, vengono
tagliate e levigate a seconda della grandezza della pietra o della moda
corrente. La più nota è il diamante seguita dal rubino, smeraldo, zaffiro,
topazio, con tutta la loro gamma di colori. Le gemme erano utilizzate anche in
magia e in medicina. Alcuni lapidari medievali (quei trattati che, analogamente
agli erbari per le specie vegetali e ai bestiari per gli animali), ne
descrivevano minuziosamente caratteristiche e proprietà magiche e medicamentose.
Ma come nascono le pietre preziose? A parte il diamante, composto da ossido di
carbonio, che opportunamente tagliato acquista il caratteristico “fuoco” o
“brio” è chiamato in gioielleria “brillante”. È solitamente colorato debolmente,
come il giallo paglierino, ma vi sono anche varietà come il verde, il bruno e il
grigio che sono rarissimi. I diamanti più famosi sono una dozzina. Ne ricorderò
qualcuno: il Kho-I-Noor (montagna di luce) menzionato per la prima volta nel
1304, attualmente si trova tra i gioielli della Corona Britannica e pesa ben
108,93 carati; il Cullinan, il più grande diamante mai trovato (grezzo pesava
3106 carati), tagliato successivamente in 9 pietre maggiori e 96 pietre più
piccole; la Stella d’Africa, che rappresenta la più grande pietra tagliata dal
precedente Cullinan, anch’esso tra i gioielli della Corona Britannica. Pesa
530,20 carati ed è composto da 74 faccette.
Le altre pietre sono frutto di “errori” della natura, infatti, se fossero pure
sarebbero perfettamente trasparenti, come il quarzo. Se nel suo interno varia il
numero di atomi, allora si colora variamente e se si “intrufola” del ferro
allora diventa ametista, se poi la pietra viene riscaldata, varia ancora e
diventa topazio. Gli ‘incidenti’ di percorso della natura hanno concorso a
regalarci, tra le altre, tre bellissime pietre rappresentate dallo zaffiro, dal
rubino e dallo smeraldo. Lo zaffiro (un cristallo incolore chiamato corindone),
piace molto per il suo blu intenso che è il frutto di un “magico” sbaglio dovuto
alla presenza di ferro e titanio. Il rubino, che è sempre corindone, è diventato
rosso in quanto al posto di alcuni atomi di alluminio vengono intrappolati atomi
di cromo. Lo smeraldo, che allo stato puro è berillo (ossido di alluminio
arricchito di silicio e berillo), se subisce la trasformazione di un atomo di
cromo in uno di alluminio, allora assume un colore verde brillante e diventa
appunto un prezioso smeraldo. Il topazio è una gemma piuttosto rara che attira
con i suoi colori tenui ma lucenti. Pare che il suo nome derivi da topas, parola
che nel sanscrito significa “fuoco” e che Papa Clemente VI lo usasse in
occasione delle sue visite agli ammalati di peste e che ciò provocasse delle
guarigioni. Nel medioevo, invece, aveva fama di scacciare malocchio e
stregoneria. È stata famosa come pietra della saggezza e in Cina era appesa alla
porta di casa per donare salute e felicità alla famiglia.
Oggi si parla anche di cristalloterapia, una pratica della medicina alternativa
che prevede di raggiungere il benessere, la cura della salute e la guarigione da
determinate patologie grazie all’applicazione di diversi tipi di minerali.
Il topazio azzurro, ad esempio, ha azioni benefiche sul fisico poiché pare che
funzioni contro l’inappetenza, l’agitazione psichica, i disturbi della voce e le
allucinazioni; quello rosa aiuta a scoprire il vero senso dell’amore e la
comprensione del prossimo; il giallo tonifica e rende elastica la pelle mentre
quello rosso è particolarmente adatto alla cura delle affezioni del sangue e dei
tessuti in genere. Infine, il topazio imperiale, di pregiata varietà, presente
in alcune miniere brasiliane, ha varie tonalità dal giallo al rosso-cherry
scuro. La foto mostra “l’anello sole”, un esemplare di topazio di colore giallo,
montato su un anello, realizzato dal maestro orafo barese, Felice Caradonna.
L’uomo, che per motivi di lucro segue attentamente la produzione naturale, ha
subito scoperto il trucco provvedendo a creare pietre preziose sintetiche
attraverso il vetro, che come il quarzo, contiene molto silicio ed è trasparente
ma, se durante la fusione si aggiungono altri minerali, lo stesso assume
colorazioni stupefacenti, fino a ottenere la gamma cromatica che i maestri
vetrai ed i maghi della bigiotteria utilizzano per le loro produzioni.
La moda? La più eccellente delle farse
Scritto da
Vittorio Polito
Martedì 05 Luglio 2011 23:15
La
moda? Secondo il poeta e scrittore francese André Suarès (1868-1948), è la più
eccellente della farse, quella in cui nessuno ride perché tutti vi recitano. La
moda ha origini remote ed è un fenomeno sociale consistente nell’affermarsi in
un determinato momento storico e in una data area geografica e culturale. Si fa
risalire addirittura alla preistoria e pare che le prime vesti si somigliassero
molto, ma quando si sviluppò, per motivi di razza e ambiente, un diverso senso
di religiosità, anche l’aspetto del vestire si modificò.
Reperti rinvenuti in
Mesopotamia testimoniano la ricchezza degli indumenti, la varietà dei tessuti,
la fastosità degli ornamenti, mentre gli Egizi, grazie ad un artigianato
espertissimo in filatura, tessitura e tintura del lino, furono all’avanguardia
dell’eleganza. Successivamente cinesi, cretesi, greci, etruschi e romani si
contesero il primato dell’arte.
In Europa la tendenza fu
quella di creare costumi caratteristici popolari originali e gradevoli. Nell’età
contemporanea con lo sviluppo della praticità e dell’igiene, hanno contribuito
ad offrire alla moda un dominio sempre più vasto e differente. Si passa,
infatti, dai tessuti grigi e spessi degli anni quaranta, ai pastelli dei
cinquanta, ai risalti geometrici dei sessanta, ai fiori dei settanta, alle
spalle grosse degli ottanta e alla prevalenza del nero degli anni novanta e così
via.
I primi a liberare le donne
dal busto (corpetto in tessuto aderente o elastico, spesso armato di stecche,
con cui si stringono i fianchi e l’addome), furono Mariano Fortuny (1838-1874) e
Paul Poiret (1879-1944) e, mentre tra le pietre miliari della sartoria è
doveroso ricordare Madeleine Vionnet (1876-1975), con i suoi irripetibili ritmi
ed equilibrio dei drappeggi e degli sbiechi. Ma le vere rivoluzioni concettuali
furono quelle volute dalla stilista inglese Mary Quant (1934-), l’inventrice
della minigonna, negli anni sessanta, periodo in cui si cercava di ridefinire
una nuova morale. Le intuizioni di Coco Chanel (1883-1971), sono fondamentali
per la storia della moda, poiché introdusse il concetto di bigiotteria, di
gioiello come audacia estetica che riuniva insieme sogno e praticità.
Christian Dior propose il
New Look, l’ottimismo estetico, con grandi quantità di tessuto, la vita stretta
e il busto segnato: era terminato il tempo del dolore mentre sopraggiungeva il
gusto di vivere, di colorare la quotidianità, insomma il senso di libertà
ritrovata, il tutto enfatizzato dalle commedie americane.
Il pret-à-porter, nato
negli anni sessanta, pone la moda di fronte al dilemma tra esclusività e
diffusione. Ma in quegli anni è successo di tutto: la minigonna, la moda
fumetto, l’arte pop, le geometrie di André Courrège (1923-), Paco Rabanne
(1934-), Pierre Cardin (1922-) e gli altri. In quegli anni si compiono i passi
più importanti ed i materiali che utilizziamo oggi sono spesso le sintesi
ultratecnologiche di elementi inventati allora.
Ecco affacciarsi negli anni
’70 il made in Italy con Walter Albini (1941-1983), Giorgio Armani (1934-),
Krizia (Mariuccia Mandelli 1935-), Ottavio Missoni (1921-). Negli anni ’80 si
arriva all’esasperazione del concetto di griffe e Gianni Versace (1946-1997),
rappresenta autorevolmente il periodo. Nasce la bellezza plastica, il maschile
ed il femminile si avvicinano (Basile e Armani). Romeo Gigli (1949-), toglie le
spalline e ingentilisce la figura facendo tornare alla memoria gli anni venti.
Oggi, per esigenze di
produzione industriale la moda diventa prodotto, cioè “abbigliamento” e non più
“moda”. Si riscopre la libertà di fare a meno di tutto, si coltiva
l’individualità. Ormai gli stilisti non impongono più, suggeriscono. Negli
ultimi anni il mix di proposte non conosce confini: si va dal rètro al
bricolage, dal tecno all’orientale. E per gli stilisti la sfida è ancora più
stimolante. La donna riconosciuta nei suoi valori, non ha più bisogno di forme
mascoline, rigide ed austere per imporsi: la lotta per dimostrare il proprio
valore continua, ma il ruolo conquistato consente il riconoscimento di una
genuina e prorompente femminilità.
E per finire qualche
pensiero sulla moda. Secondo il filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976),
«…la logica della moda vuole che l’abito sia la veste del momento in attesa del
prossimo», mentre per Mary Quant, stilista inglese, «Un tempo la moda la
facevano i ricchi e i detentori del potere. Gli altri si adeguavano. Adesso la
moda la fanno le ragazzine e le duchesse la copiano». Ed io mi pongo una
domanda: chissà quante foglie di fico avrà provato Eva prima di dire: scelgo
questa, anche perché la foglia scelta avrà avuto pure una forma graziosa ed
utile allo scopo, ma sempre così uguale… una noia.
giovedì
29 settembre 2011
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LA CURIOSITA',
Libri
Famosi? Ma ognuno col suo male
di Vittorio Polito
Molte sono le persone che testimoniano quanto la malattia, piccola o grande che
sia, con i suoi inevitabili impedimenti, difficilmente accettata inizialmente,
ci accompagnerà sempre, ma noi abbiamo il potere di sfruttarla convivendo con
lei, mentre per qualcuno potrà rappresentare anche uno stimolo per la creazione
artistica. Questa tesi era già sostenuta dallo scrittore Pietro Verri
(1728-1797), che così scriveva: «La musica, la pittura, la poesia, tutte belle
arti, hanno per base i dolori innominati: in guisa tale che, se gli uomini
fossero perfettamente sani ed allegri, non sarebbero nate mai le belle arti.
Questi mali sono la sorgente di tutti i piaceri più delicati della vita».
Thomas Mann (1875-1955), scrittore tedesco, era solito affermare che rispetto ai
soggetti normali l’artista si distingue per il fatto che presenta più difficoltà
ad esprimersi. La conferma viene da Edvard Munch (1863-1944), il pittore degli
incubi, contemporaneo di Ibsen e Strindberg, considerato il massimo artista
norvegese, che sosteneva: «…senza malattia né angoscia sarei stato una barca
senza timone».
Grandi malati furono anche Vincent Van Gogh (1853-1890), affetto da
schizofrenia, Henry Matisse, che soffriva di grave enteropatia cronica, Toulouse
Lautrec (1864-1901), che oltre ad essere un affezionato seguace di Bacco, era
affetto da deformità scheletriche e da sifilide. Edgar Degas (1834-1917),
accusava gravi disturbi visivi, mentre Amedeo Modigliani (1884-1920), era
tubercolotico. Masaccio (soprannome di Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai,
1401-1428), il cui nome vuol significare vestito di stracci, morto a soli a 27
anni, era considerato un genio un po’ matto poiché con la testa immersa nel suo
lavoro si dimenticava di mangiare o di farsi riparare un abito strappato e
nonostante la sua brevissima vita è riuscito a dare una svolta alla storia della
pittura. Per non parlare di Sigmund Freud (1856-1939), Francisco Goya
(1746-1828) e Oscar Wilde (2854-1900), tutti affetti da malattie dell’orecchio o
da sordità.
Alcuni sostengono che un po’ di follia e certe malattie danno vita alla
creatività di un’artista, molto di più della normalità psicofisica. Infatti, lo
stesso Toulouse-Lautrec, riesce a convivere con la sua deformità, ma gli altri,
non geniali, che vogliono (a volte) possono guarire? Artisti o no ci tocca
mettere in discussione alcuni concetti sulla nostra salute o sulla nostra
malattia e per farlo ci aiutano due neuropsichiatri, Abraham e Peregrini, che
qualche anno fa hanno pubblicato il volume “Ammalarsi fa bene” (Feltrinelli),
attraverso il quale dimostrano, con prove, il grande aiuto prodotto dalla
psicoemotività, una sorta di prontuario con le istruzioni per girare tra
malattie che ne evitano altre. Nel libro citato c’è quanto basta per capire che
chi è sano è più solo, mentre chi “scoppia” di salute farà bene a fingere di
soffrire qualche malanno. Inoltre gli autori tentano di spiegarci come
impossessarsi della malattia, del disagio e come occorra dominarli per non
essere dominati, poiché l’errore più comune è quello di mascherarli. Nessuno
ammette con gli altri, ma prima con se stesso, la propria fragilità fisica e/o
mentale. Essere sani, belli, efficienti. Chi non appartiene a questa tribù, si
sente indegno di far parte del «felice villaggio globale».
Più recentemente è stato pubblicato il volume di Luciano Sterpellone “Famosi e
malati” (Editrice SEI, Torino), il quale fa un’ampia rassegna dei malati famosi.
In campo musicale si ipotizza che pochi maestri ‘scoppiavano’ di salute. Fra i
più malridotti figurano Antonio Vivaldi (1678-1741), creatore di tanta stupenda
musica per “Le quattro stagioni”, portatore di asma bronchiale, morì per una
“infiammazione interna”; Niccolò Paganini (1782-1840), affetto da tubercolosi;
Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791, che dopo aver contratto una lieve forma di
vaiolo nel 1767, fu colpito nel 1788 da una crisi depressiva e creativa, si
ammalò anche di insufficienza renale e forse di schizofrenia. Ma, nel 1791, con
l’improvviso e straordinario risveglio della vena creativa: compone ‘Clemenza di
Tito’, ‘Flauto Magico’, ‘Concerto per clarinetto’ e il ‘Requiem’. Quest’ultimo
rimasto incompiuto a causa della morte, avvenuta il 5 dicembre dello stesso
anno, per una “febbre da infiammazione reumatica”. È recente la notizia secondo
la quale Mozart sarebbe morto perché colpito da “trichinosi” per aver mangiato
troppe costolette di maiale poco cotte.
Johann Sebastian Bach (1685-1750), famoso compositore tedesco, miope da giovane,
aveva sviluppato una cataratta che un micidiale oculista, John Taylor,
rivelatosi un ciarlatano, introdusse nell’occhio del musicista un preparato a
base di mercurio, costringendo il malcapitato a sottoporsi solo una settimana
dopo ad un nuovo intervento. Era affetto da obesità, ipertensione arteriosa e
soffrì di vari ‘colpi’ cerebro-vascolari, uno dei quali complicato da una non
meglio identificata ‘febbre miliare’, che lo portò a morte.
Ludwig van Beethoven (1685-1750), il celeberrimo sordo che conquistò il mondo
scrivendo capolavori, specie nell’ultimo decennio di vita, versava in condizioni
piuttosto gravi, tanto da tentare il suicidio. Infatti in una lettera
indirizzata ad un amico, Beethoven scriveva: «… e poco ci mancò che mi togliessi
la vita. Solo l’arte mi ha trattenuto di farlo. Mi è parso impossibile lasciare
questo mondo prima di avere pienamente realizzato ciò di cui mi sentivo capace».
Il Maestro che era un buon bevitore, soffriva anche di cirrosi epatica.
Beethoven era molto miope e quindi usava le lenti sin da piccolo e forse per
questo motivo scrisse un “Duetto con due occhiali per viola e violoncello”. A
causa della sua nota sordità trascorse sei mesi nell’arcadica atmosfera di
Heiligenbstadt, oggi un trafficato quartiere viennese, «lontano dai rumori per
riposare l’affaticato organo dell’udito», ove compose la Sesta Sinfonia, detta
Pastorale. Purtroppo la perdita dell’udito sarà progressiva, sino alla sordità
completa. Tutte le terapie prescritte (suffumigi, diuretici, lavaggi, acque
termali, correnti galvaniche, magnetismo), si rivelarono inutili, se non
dannose. Molto probabilmente si trattò di una otosclerosi, una ossificazione
della staffa, uno degli ossicini dell’orecchio, che attualmente si cura con
elevato successo, sostituendola. Il noto compositore soffriva anche di cirrosi
epatica, forse dovuta alla sua documentata propensione verso l’alcol, e si
ipotizza che sia stata proprio questa la causa della sua fine.
Vincenzo Bellini (1801-1835), che morì a soli 34 anni, dette adito a ipotesi di
avvelenamento e per porre fine a quelle voci sempre più insistenti, dovette
intervenire personalmente il re Luigi Filippo, che incaricò un professore della
Facoltà di Medicina di eseguire l’autopsia sul corpo del musicista. In realtà fu
esclusa l’ipotesi di avvelenamento ma la causa della morte fu attribuita ad una
«infiammazione dell’intestino crasso, complicata da ascesso del fegato». Il
musicista catanese soffriva molto il caldo ed aveva frequenti coliche
intestinali che cercava di dominare… con i purganti. Il reperto autoptico dette
adito a varie ipotesi diagnostiche, come la colite ulcerosa, la sindrome del
colon irritabile, ecc.
Yasser Arafat (1929-2004), prese parte alle guerre contro Israele del 1948 e
1956 nelle file dell’esercito egiziano e fu eletto nel 1970 presidente
dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Arafat soffriva di
ipertensione arteriosa complicata da arteriosclerosi e numerosi furono gli
episodi di angina pectoris, favoriti dalla sua vita convulsa e continuamente a
rischio. La morte è sopravvenuta in seguito ad una emorragia cerebrale, dopo 27
giorni di coma. Recentemente sono state avanzate insistenti ipotesi di
avvelenamento e per dissimulare l’azione del veleno sarebbe stato iniettato il
virus HIV dell’Aids.
Maria Callas (1923-1977), celebre soprano statunitense di origine greca,
scomparsa nel 1977, fu colpita da una delle massime sfortune per una cantante:
perdere la voce. La diagnosi tardivamente formulata fu di “dermatomiosite”, una
malattia che colpisce i tessuti connettivi e nel caso della Callas colpì proprio
l’organo della fonazione, la laringe, che le procurava improvvisi abbassamenti
di voce. I soliti detrattori attribuivano il fenomeno alle vicende sentimentali
della cantante che tanto la angosciavano. La diagnosi fu fatta tardivamente ma
fu introdotta una accurata terapia cortisonica che contribuì a migliorare i toni
vocali. Un anno dopo Maria Callas si spense, forse a causa di un infarto del
miocardio, compatibile con la stessa dermatomiosite della quale era portatrice.
Fryderyk Chopin (1810-1849), mentre soggiornava a Palma de Majorca con il suo
amico George Sand, si manifestò, circa dieci anni prima della morte, il processo
tubercolare. Nonostante i chiari segni della malattia un medico, tal Papet,
diagnosticò una «modica infiammazione della trachea senza segni di tubercolosi
polmonare» (?). Chopin, persona estremamente sensibile, molto geloso ed
irascibile, aveva sofferto in passato di varie affezioni delle vie respiratorie
ed aveva seguito varie terapie in stazioni termali, equitazione, dieta con
mucillagine d’avena, infuso di ghiandole tostate, ecc., tutte terapie non
seguite da alcun giovamento. L’autore dei bei notturni soffriva anche di
“allucinazioni uditive”, gli sembrava di udire le campane della chiesa che
suonavano a morte per il suo funerale. In questa condizione compose la “Sonata
in si bemolle maggiore”, di cui fa parte la “Marcia funebre”.
Gabriele D’Annunzio (1863-1938), celebre non solo come scrittore ma anche per le
sue stravaganze, narcisista e megalomane, volle essere al centro dell’attenzione
sia nelle sue battaglie “guerriere” che sentimentali.
Dopo un intervento subito nel 1929, gli fu consigliata la somministrazione di un
purgante “per muovere l’intestino”, ma il vate rifiutò sdegnosamente di
sottostare alla «volgarità dell’olio di ricino» ed allora si utilizzò un
espediente: il purgante fu messo in un bicchiere con mentuccia e champagne. Morì
per un’emorragia cerebrale. Come per altri personaggi famosi anche per
D’Annunzio si parlò di suicidio, ma con molta probabilità quella del suicidio fu
solo un’interpretazione un po’ fantasiosa di quel desiderio di sparire, che
spesse volte manifestava.
Giorgio De Chirico (1888-1978), nato in Grecia, fin dalla sua giovinezza
soffriva di frequenti cefalee, alle quali fu attribuita quella “rivoluzione”
della pittura del Novecento (la metafisica), della quale fu riconosciuto
l’ispiratore. Il pittore soffriva di “febbri spirituali”, come egli stesso li
definiva, ma la scienza attuale li riconosce come forme patologiche che generano
visioni alterate e allucinatorie.
Marlene Dietrich (1901-1992), con «le gambe più sexy del mondo», proprio quelle
avrebbero decretato la fine della splendida carriera dell’attrice. Il motivo?
L’osteoporosi sopravvenuta alla menopausa che colpì l’articolazione dell’anca
costringendola in casa per dodici anni. Gli ultimi della sua vita. La
preoccupazione maggiore dell’attrice non era tanto l’eventualità di nuove
fratture, quanto quella di apparire a chiunque in condizioni precarie. La sua
fine è da attribuire ad un ictus cerebrale, almeno così è considerato
ufficialmente il motivo della sua morte. Ma vent’anni dopo la sua segretaria,
fornì una versione diversa. Un suo nipote, che la Dietrich odiava, propose di
ricoverarla in una casa di cura. L’attrice che udì tutto dalla sua stanza da
letto lo fece cacciare di casa insieme ad altri parenti, poi chiese alla
segretaria di portarle i soliti sonniferi. Pochi momenti dopo, quando la
segretaria rientrò in camera, vide il flacone vuoto e la donna riversa sul
letto.
Albert Einstein (1879-1955), il bambino che secondo il pronostico del padre «non
avrebbe mai combinato nulla di buono nella vita», era considerato a 26 anni già
un genio dal mondo scientifico. Certamente a dieci anni aveva difficoltà ad
eseguire operazioni aritmetiche, ma aveva una passione per il violino e
preferiva Mozart e Vivaldi. «La relatività? Pensate cos’è un minuto con i piedi
sui carboni ardenti, e un minuto con una bella ragazza su un prato…». Einstein
soffriva di ipertensione arteriosa, causa di un’arteriosclerosi generalizzata e
di una lesione aortica che fu poi causa della sua morte. Einstein fu colpito da
una lunga malattia, forse una miocardite. Nel 1948, sette anni prima della fine,
fu colpito da improvvisi dolori addominali e da vomito. L’intervento chirurgico
mise in evidenza una cirrosi epatica ed un aneurisma dell’aorta addominale. Ma
Einstein non seguì mai troppo fedelmente i consigli dei medici. Sosteneva che
«Si può anche morire senza l’aiuto dei medici».
Robert Schumann (1810-1856), compositore tedesco, grande innovatore della musica
romantica, forte bevitore di birra e fumatore di sigari, bella presenza, aveva
un pessimo carattere e quindi difficoltà a stabilire rapporti cordiali. Soffrì
di “allucinazioni acustiche”, di varie patologie e di depressione, al punto che
per ben due volte tentò il suicidio. Si ricoverò spontaneamente in una clinica
per malattie mentali e nel giro di un paio d’anni perdette l’uso della voce,
rifiutandosi anche di mangiare. La diagnosi psichiatrica fu di “psicosi
maniaco-depressiva”.
Giovanni XXIII, al secolo Angelo Roncalli (1881-1963), soffriva di disturbi allo
stomaco che rivelarono successivamente un cancro. Le sue condizioni peggiorarono
dopo la sua elezione e nel 1963 morì a causa delle frequenti emorragie
gastriche.
Giovanni Paolo II , Karol Wojtyla (1920-2005) ). Non aveva avuto particolari
problemi di salute, se si eccettua un incidente subito nel 1944, quando fu
travolto da un camion militare e riportò una lieve frattura cranica. Dopo il
noto attentato subito per mano di Alì Agca, fu operato per un voluminoso tumore
benigno al colon. Successivamente, in seguito ad una caduta, si lussò la spalla
e si fratturò la scapola. Qualche anno dopo, la sera prima di un programmato
viaggio in Sicilia, cadde nuovamente e si fratturò il collo del femore e gli fu
impiantata una protesi artificiale che lo costrinsero dapprima a camminare con
un bastone e successivamente a muoversi su una sedia a rotelle. Subì ancora un
intervento per asportazione dell’appendice e si affacciò una nuova malattia: il
morbo di Parkinson seguito anche da una ipertrofia prostatica. La situazione si
aggravò nel marzo 2005 per una infezione polmonare prima e il sopravvenire,
dopo, di crisi anginose, ipotensione e blocco renale. Così il Papa venuto da
lontano che influenzò notevolmente la storia del XX secolo, si spense la notte
del 2 aprile 2005.
Anche per l’organista barese Donato Marrone, la cecità gli fu probabilmente
d’aiuto nell’esprimersi musicalmente. Un musicista ed un ottimo
pianista-organista, con un grande cuore ed una totale dedizione alla musica.
Secondo Vito Maurogiovanni, «Donato Marrone era una figura ben conosciuta nella
città. Lo vedevamo spesso in giro per la strade, doveva raggiungere le chiese
dove suonava l’organo per le funzioni solenni. Lo accompagnavano in quel
tragitto quasi tutti i suoi piccoli figli che diventavano così gli angeli
custodi di quel padre alto, robusto e famoso; ma era un uomo debole con le
pupille spente, i lunghi capelli da musicista, un sorriso bonario eternamente
stampato sul suo viso ispirato di artista».
Concludendo «stare bene non vuol dire “scoppiare di salute…” ascoltare i segnali
del malessere significa usare il sistema di allarme di cui siamo dotati, solo
così la nostra vita riesce a trovare un equilibrio con allarmi e squilibri
quotidiani».
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